SOMALIA:
UCCISA ANNALENA TONELLI
6 OTTOBRE 2003
Nessuna pietà. Due colpi di revolver alla nuca, forse una raffica di kalashnikov, esecutori due morian, i banditi somali.E il mondo, davanti alla spietata esecuzione di Annalena Tonelli, un angelo di dolcezza che alla Somalia aveva dato tutto, è rimasto attonito. I mass – media, da una parte e dall’altra dell’Atlantico, hanno pubblicato articoli e analisi, una volta tanto con rispettosa compostezza. Ma a colpire impotenti davanti alla barbarie e alla ferocia sono state le grandi fotografie nelle prime pagine dei grandi quotidiani di Annalena: occhi di un azzurro profondo in un volto incorniciano dal suo scialle inseparabile, portato – diceva – per rispetto delle donne di laggiù.
Per i kiwaniani, increduli, è come se all’improvviso fosse volata via una sorella. Non nelle cornici consuete, cui siamo abituati, talvolta non reggendo alla noia della civiltà, ma nell’inferno dell’ospedale di Borama dove, trascinati in catene perché considerati indemoniati, gli epilettici ritrovavano la loro umanità. E così gli ammalati di Aids sempre più consumati nel fisico e nella psiche che, grazie a quegli occhi, riuscivano a superare crisi terribili e – ha del miracoloso – a percepire di nuovo, magari per un istante, il gusto dell’esistere.
All’inizio dell’estate, quando Annalena Tonelli venne in Italia, nella sua Forlì che aveva lasciato trent’anni fa, dopo la laurea in legge,con l’umiltà di cui sono capaci gli esseri che dentro hanno la santità, ripeteva agli amici kiwaniani che per le circostanze internazionali non sempre sono riusciti a darle quanto avrebbero voluto: ”Sola, ho scelto di vivere per gli altri”. E questa stessa frase si ritrova in una lunga “intervista – testimonianza” pubblicata nel novembre dello scorso anno, nell’inserto del primo numero della rinnovata serie di “Kiwanis rassegna di cultura”. Quanto lei disse in quella “intervista-testimonianza” e, poi, ai giornalisti di “Specchio”, di “Oggi”, di giornali tedeschi e francesi, va ancor più meditato adesso: a poche ore dal suo assassinio. Nessuna invettiva (che non è certo segno di coraggio) come lei avrebbe continuato a sommessamente insegnare, accettando il male che la circondava e che, con tenacia disarmante, cercava di combattere inerme, armata solo dalla sua fede nell’umanità, o di superare perché gli altri conoscessero solo il bene. Nessuna rassegnazione o improvviso disinteresse scoraggiato per quel Paese sfortunato che si chiama Somalia. Ma – è l’impegno di chiunque si identifichi nello spirito kiwaniano e che sia nemico della retorica – programmi rinnovati di aiuti nel nome di Annalena Tonelli e perché la sua opera, in silenzio ma tanto concreta, prosegua a Morca, a Borama e in ogni angolo della Somalia dove le scuole, gli ospedali, la lotta al dolore, la dignità e il rispetto delle donne e degli uomini fioriscano come tante rose vermiglie, segno di coraggio, determinazione, speranza, amore. Questa è la strada che il Kiwanis, in Italia come in Europa, in America come in Africa, si impone e cercherà di percorrere nel modo più produttivo possibile con un unico obiettivo: lenire la sofferenza; dare la speranza a chi l’ha persa come, assassinando Annalena Tonelli l’hanno smarrita i due morian che, con la ferocia di belve, hanno freddato quella piccola donna indifesa, ma dalla volontà di acciaio perché gli altri possano continuare a vivere.
Enrico Villa
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MOGADISCIO - Era chiamata la madre Teresa della Somalia per la sua instancabile dedizione alla causa dei malati e dei poveri nel paese africano martoriato da guerre e lutti. E proprio in Somalia, paese che aveva scelto come sua seconda patria e in cui lavorava da 20 anni, ha trovato ieri la morte Annalena Tonelli, 60 anni, volontaria originaria di Forlì assassinata in una povera casupola di Barama (nord ovest del Somaliland) dove abitava vicino all´ospedale che aveva fondato.
La Madre Teresa
dfella Somalia
La «Madre Teresa della Somalia» è stata ferita a colpi di arma da fuoco da sconosciuti che l´hanno lasciata a terra agonizzante. La volontaria è morta un´ora dopo. Sembra che dalla sua casa non sia stato portato via nulla e la polizia parla dell´opera di un «pazzo»; ma pochi danno credito a questa versione. Annalena Tonelli aveva fondato e dirigeva a Borama (Somaliland) un ospedale con 200 posti letto specializzato soprattutto alla cura della tubercolosi.
Per la sua opera aveva ricevuto lo scorso aprile dall´Unhcr il «Nansen Refugee Award», il più importante premio che viene assegnato a coloro che si occupano di profughi e rifugiati. «La signora del deserto», come era soprannominata, da 36 anni, dopo la laurea in legge, l´abilitazione all´insegnamento della lingua inglese e il conseguimento di vari diplomi in materie mediche, malattie tropicali, nefrologia, aveva scelto di assistere gli adulti e i bambini emarginati. «Volevo partire per l´India, ma la mia famiglia non volle», spiegò dopo la notizia del conferimento del premio Nansen 2003. Andò allora negli Stati Uniti, quindi in Inghilterra «e finalmente arrivai in Africa: avevo 25 anni». La volontaria arrivò in Kenya, la prima tappa, dove cominciò la sua opera sempre a favore di popolazioni somale.
I suoi guai - racconta Vanni Sansovini, il presidente del Comitato per la lotta contro la fame nel mondo di Forlì, la città natale di Tonelli - iniziarono quando una «coalizione di tutte le forze armate kenyane aveva deciso di sterminare un´intera tribù di somali, quella dei Daigodia, a Wajir, nelle regioni settentrionali della nazione». I militari assediavano la città, lei riuscì a inviare un messaggero con informazioni e foto di cadaveri cucite nei pantaloni all´Amref, una fondazione africana per la medicina e la ricerca che si serve dei cosiddetti «flying doctors», medici che si spostano da un villaggio all´altro a bordo di piccoli velivoli.
Fu anche espulsa
dal Kenya
Questi medici riuscirono a diffondere la notizia e a fermare il massacro, che comunquè costò la vita a mille persone. «Lei riuscì a fare questo - dice il presidente del Comitato forlivese - e fu espulsa immediatamente dall´allora governo del Kenya. Dovette lasciare il paese in 24 ore». Da sette anni lavorava a Borama, in un ospedale con 500 pazienti per la cura di tubercolosi e dell´Aids, vivendo in assoluta povertà, mangiando lo stesso cibo dei pazienti, senza possedere nulla. Si opponeva con tutte le forze anche alla mutilazione genitale femminile, ancora diffusissima in Africa. Aveva accettato il premio Nansen, spiegò la stessa Annalena, come riconoscimento per chi l´ aveva aiutata: il Comitato, la mamma, la famiglia. E i 100 mila dollari del premio li aveva utilizzati per l´ospedale. «Sono grata all´Unhcr per aver voluto concedere l´attenzione alla mia amata Somalia - aveva detto ricevendo il premio - adesso posso dare voce a una popolazione che non ha voce».
Annalena Tonelli non considerava la sua vita un sacrificio. «Non è sacrificio, è pura gioia. Chi altri al mondo ha una vita così meravigliosa?», aveva detto all´inizio di quest´anno.
ROMA - «Annalena era una
donna straordinaria e arrivò in Africa quasi per sbaglio»: lo afferma
padre Alex Zanotelli, ex direttore del mensile "Nigrizia". Annalena
Tonelli aveva infatti raccontato al mensile comboniano che il suo sogno
era l'India, ma la sua famiglia non aveva voluto, e così era partita per
il Kenya. «Pensavo fosse solo un Paese da turisti» disse all'epoca la
volontaria. Ma proprio in Kenya, per la prima volta, ebbe a confrontarsi
con la violenza. «Negli anni '80 - ricorda padre Zanotelli - venne espulsa
per aver denunciato uccisioni e scongiurato il massacro di alcune
popolazioni nomadi da parte del governo di Nairobi. E così finì in Somalia».
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«Il mio privilegio è dedicarmi a chi soffre sotto qualsiasi cielo» |
Il Cairo
«Dedico la medaglia a mia madre, alla mia famiglia, ai miei amici che mi aiutano da quasi 40 anni ad alleviare le sofferenze di tanti poveri». Con voce squillante, Annalena Tonelli commentava così, in una conversazione con l'Ansa, nell'aprile scorso, il premio Nansen che le era stato assegnato dall'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati. Annalena non amava parlare di sè: «Non sono laureata in medicina - puntualizzava -, sono laureata in legge, e abilitata all'insegnamento dell'inglese, poi ho preso numerosi diplomi in materie mediche, malattie tropicali, nefrologia, alcune altre...». E sul perché di tanta dedizione all'Africa aveva detto: «Non all'Africa, o alla Somalia, ma all'uomo che soffre, sotto qualsiasi cielo della Terra. È nata in me che ero bambina, è un enorme privilegio che ho ricevuto» e la figura di riferimento per lei era stata «Gesù Cristo», che, aggiungeva, «mi ha sempre guidata». Anche quando nell'84 «una coalizione di tutte le forze armate kenyane aveva deciso di commettere il genocidio di un' intera tribù di somali, quella dei Deigodia, a Wajir, nel Kenya settentrionale». La leggenda vuole - e lei la confermò in parte - che riuscì a salvare centinaia di persone fermando i militari dopo aver inviato un suo messo fuori dalla città assediata, con informazioni e foto dei cadaveri cucite nelle pieghe dei pantaloni. Il messaggero riuscì a portarle ad Amref, una fondazione africana per la medicina e la ricerca i cui medici si spostano da un villaggio all'altro a bordo di piccoli aerei. «Sono i miei amici di sempre, i "flying doctors" che riuscirono a diffondere la notizia ed a fermare quel massacro, che costò comunque la vita a mille persone», ha raccontato Tonelli. «In realtà - aveva detto ancora - dopo aver assistito per anni adulti e bambini emarginati nella mia città, Forlì, che vivevano in una vecchia caserma o nel locale brefotrofio, bambine con ritardi mentali, io volevo partire per l'India, ma la mia famiglia non volle. Allora partii per gli Stati Uniti, poi andai in Inghilterra e finalmente arrivai in Africa. Avevo 25 anni». Negli ultimi sette anni aveva lavorato a Borama, nel Somaliland, dove il suo ospedale assiste 500 pazienti affetti da tubercolosi, o Aids o sieropositività. E della situazione della Somalia del sud aveva indicato i responsabili nei «signori della guerra, che preferiscono tenere in piedi questa tensione perché a loro conviene». Alla domanda su come aveva intenzione di utilizzare i 100 mila dollari del premio Nansen, aveva risposto senza esitazioni «per la mia gente, per il mio staff, sono 75 persone che lavorano con me, tutti somali e loro, come i pazienti, hanno tanto bisogno di aiuto. È una vita dura, ma bellissima, veramente bellissima». |
7 ottobre 2003 |
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