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KC Foligno

dal Past Lgt. Donato Vallescura

Su invito del Dr. Leonello Radi, Segr. Gen. del CdA  Nemetria*, ho partecipato Venerdì 26 Febbraio 2010 al convegno  “ Famiglia: educazione, formazione e futuro dell’economia” che detta associazione ha organizzato in Foligno.

Relatori sono stati chiarissimi professori e direttori di Istituti nelle Università di Navarra e Valencia, dell'Academie Européenne di Strasbourg, dell’Idaf-Bonn ed eminenti personalità aventi incarichi presidenziali nell’organizzazione  Nemetria.

Al termine del convegno mi sono intrattenuto a colloquio con i conferenzieri che nei loro interventi hanno più ampiamente trattato le problematiche relative all’infanzia. Con loro ho parlato di Kiwanis. Tutti mi hanno autorizzato a divulgare i contenuti dei loro interventi.

Quella che segue è la relazione del Dott. Carlo Santini Nemetria Presidente SORGENTE sgr, al quale ho inviato il seguente messaggio di ringraziamento.

“Egr. Dott. Santini,

Nemetria organizza da sempre eventi di alto profilo culturale, che offrono l'opportunità di apprendere saperi che si situano  alle frontiere della conoscenza, di ascoltare e incontrare relatori di grande qualità.

Ogni volta che partecipo ad un convegno Nemetria ne esco arricchito;  anche questa volta, oltre ad aver ascoltato relazioni interessantissime, ho avuto il piacere e l'onore di conoscere persone importanti come Lei.

Grazie per l'attenzione che si è compiaciuto di dedicarmi e grazie per la relazione che mi ha mandato. Trovo questo Suo lavoro di grande interesse e attualità, ricco di riflessioni ponderate che completano i pensieri degli studiosi di chiara fama internazionale da Lei citati.

Gli argomenti trattati nella Sua relazione sono molto pertinenti anche ai temi ai quali il Kiwanis Internazionale e, in particolare, il nostro Distretto Italia-San Marino, rivolgono grande attenzione.

Nel rinnovarLe di cuore i miei ringraziamenti, La prego di gradire i miei saluti più cordiali.

Con rispetto e stima,


Donato Vallescura

*Nemetria (Pres. Dr. Giuseppe De Rita, Pres. Comitato Scientifico Prof. Paolo Savona) è una associazione fondata da Aziende, Banche, Enti, Università, che realizza attività nella specifica area del post - produttivo. Ogni anno, dal 1991, Nemetria promuove una "Conferenza su Etica ed Economia", con il contributo di personalità del mondo scientifico, politico e degli affari e di Nobel per l'economia.

 

“Famiglia: educazione, formazione e futuro dell'economia”

di Carlo Santini

 (26 febbraio 2010) 

INTRODUZIONE

Nel prendere la parola in un Convegno che affronta temi di attualità di indole sociologica, formativa, politica, economica propri della famiglia, ho voluto prendere le mosse da alcuni testi, da alcuni studi che si possono considerare emblematici.

 La Costituzione della Repubblica italiana tratta della famiglia in tre articoli: 29, 30 e 31. Definisce la famiglia come società naturale fondata sul matrimonio e ne riconosce i diritti propri. Attribuisce ai genitori il diritto-dovere di mantenere, istruire, educare i figli. Impegna la Repubblica ad agevolare la formazione della famiglia con misure economiche e altre provvidenze.

Il Codice Civile tratta, nel Capo IV, dei diritti e dei doveri che nascono dal matrimonio; essi attengono sia ai rapporti tra i due coniugi sia ai loro obblighi verso i figli, verso la famiglia.

Questi testi non sono frutto di improvvisazione; riflettono la tradizione, la cultura di un paese. Certo, si possono modificare, ma sarebbe pernicioso farlo senza un’adeguata valutazione delle conseguenze di lungo termine. Grave sarebbe, in qualche misura è, come vedremo più avanti, la loro sostanziale inosservanza.

La Dottrina sociale della Chiesa (Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, Libreria editrice vaticana, 2004) definisce la famiglia “cellula vitale della società”, “prima società naturale, titolare di diritti propri ed originari” e la pone al centro della vita sociale. Per la Chiesa cattolica la famiglia è un’istituzione divina che sta a fondamento della vita delle persone. La famiglia è prioritaria rispetto alla società e allo Stato ed è la miglior garanzia contro ogni deriva di tipo individualista o collettivista.

 Attraverso il tempo e attraverso lo spazio occupato dalla nostra terra si sono avuti, e sussistono tuttora, modelli di famiglia molto diversi. Non è questa la sede per un loro esame approfondito, né io avrei la capacità di farlo. Mi limito a ricordare, in termini molto schematici, due modelli diffusi nell’attuale mondo occidentale, anche perché ad essi farò ancora riferimento nel seguito della mia relazione.

 In molte analisi, sia sociologiche sia economiche, si suddividono le famiglie sulla base della solidità e dell’articolazione dei legami che uniscono i componenti di una famiglia (David Sven Reher, Family Ties in Western Europe: Persistent  Contracts, in Population and Development Review, Vol.-24, N° 2, June 1998).Si parla allora di famiglie con legami “forti”, prevalenti nei paesi europei dell’area mediterranea, e di famiglie con legami “deboli” che caratterizzano le società del Nord Europa e del Nord America. Alla base di questi diversi modelli familiari vi è di regola una storia plurisecolare, con i suoi connotati tradizionali, culturali, religiosi, ambientali, economici. Il dibattito sempre aperto sulla supremazia di un modello sull’altro risente spesso e, aggiungo, inevitabilmente di a-priori ideologici.

 Se interroghiamo la nostra personale esperienza, ovviamente tanto più ricca e articolata quanto più indietro nel tempo ritroviamo l’anno della nostra nascita, possiamo agevolmente toccare con mano i cambiamenti già intervenuti e quelli in atto nella famiglia,anche prescindendo da ogni giudizio di valore.

 Pensiamo solamente alle norme introdotte nel nostro ordinamento giuridico per   regolare il divorzio e l’aborto, alla diffusione degli anticoncezionali. Riflettiamo al diverso atteggiamento sociale verso le convivenze, verso le giovani donne non sposate con un figlio.  Contiamo quante donne nel nostro ambiente di 50 anni fa lavoravano fuori dall’ambiente familiare e quante vi lavorano oggi. Si potrebbe continuare con gli esempi.

 Mi limito, a conclusione di questa breve sezione introduttiva, a citare un recente articolo del sociologo Francesco Alberoni (Le coppie e l’unione perfetta – Matrimonio? Sì, finché dura, Corriere della Sera, 15-2-2010). “Un tempo si sposavano tutti, il matrimonio era la base stabile della casa, della famiglia….. Il matrimonio doveva essere indissolubile e fino alla morte. Oggi tutto è cambiato”. La conclusione di Alberoni è programmatica: “….. a volte mi domando se, pur non toccando affatto il matrimonio tradizionale, non sia il caso di studiare anche altre formule legali o contratti matrimoniali che consentano soluzioni più articolate adatte alle diverse circostanze del nostro tempo”. Nell’articolo che sto citando la vita, e quindi anche la morte, di un matrimonio sono legate all’intesa amorosa, con un forte ruolo della componente passionale, erotica.

 Un breve commento, stimolato dall’enfasi che il nostro Convegno pone sull’importanza dell’educazione e della formazione. L’uomo non è deterministicamente succube delle passioni; può essere educato a dominarle, a far prevalere valori e motivazioni profonde. Al contrario, la nostra società, attraverso la stampa, il cinema, la televisione esalta stili di vita nei quali predomina la ricerca ossessiva del benessere, del piacere individuale, nei quali sono assenti valori quali, per rimanere nell’ambito della famiglia, la responsabilità verso l’altro coniuge, verso i figli, verso le generazioni precedenti e quelle future. Le famiglie più solide, la scuola, la società civile e la Chiesa attraverso le loro molteplici istituzioni hanno, in questo contesto, enormi responsabilità se si vuole frenare, dapprima, ribaltare, successivamente, quella che a me sembra una deriva verso il disfacimento della nostra  civiltà.

MODELLI  FAMILIARI

 Limitando l’analisi all’ultimo secolo, notiamo che il modello di famiglia dominante in Italia e, più in generale, nell’area latino-mediterranea ha visto al vertice l’uomo che col suo lavoro nei campi, nella fabbrica, nella bottega, nell’ufficio si procura un reddito destinato al mantenimento, oltre che di se stesso, della moglie e dei figli. La donna, in questo modello, è tipicamente addetta ai lavori casalinghi, con un forte impegno nell’allevamento dei figli. La partecipazione femminile al mercato del lavoro è relativamente bassa.

Data la metodologia statistica con la quale è costruita la contabilità nazionale, è l’uomo, nel modello semplificato che sto illustrando, che produce i beni e i servizi che determinano il valore del prodotto interno lordo di un paese (il PIL, sigla magica che si è spesso portati a considerare sinonimo di benessere).

 I servizi prodotti da una donna all’interno delle mura domestiche (cucinare, pulire, assistere figli, anziani, malati) non sono valorizzati ai fini del calcolo del PIL. Se io, tornando la sera a casa, mi siedo a tavola e consumo una buona cena preparata da mia moglie, il PIL non è interessato. Ma se la stessa cena viene cucinata da una collaboratrice domestica, il PIL cresce in misura pari al suo stipendio. Analogamente, si hanno diversi effetti sul PIL a seconda che un anziano sia accudito in casa da una figlia o da una nuora o sia invece assistito in un Istituto di riposo.

 Di recente, due economisti italiani hanno cercato di valutare la ricchezza che hanno definito “fatta in casa”, soprattutto dalle donne italiane (A. Alesina – A.Ichino, L’Italia fatta in casa, Mondadori, 2009). Mettendo a confronto quattro Paesi (Italia, Norvegia, Spagna e Stati Uniti), rilevano che il prodotto giornaliero “ufficiale” in euro di un lavoratore (derivato quindi dalle statistiche relative al PIL) è in Italia simile, anche se lievemente inferiore, a quello spagnolo, ma notevolmente più basso che in Norvegia e negli Stati Uniti. Attraverso opportune e complesse stime gli autori cercano poi di misurare, per ciascuno dei 4 Paesi, il maggior prodotto giornaliero se al prodotto “ufficiale” (il famoso PIL!) si aggiunge quello attribuibile in particolare alle donne per il benessere delle rispettive famiglie.

 L’incremento di prodotto che si ricava per l’Italia è di gran lunga maggiore, soprattutto nel confronto con Norvegia e Stati Uniti. La donna italiana, di qualunque età, produce relativamente poco “per le statistiche”, ma relativamente tanto per l’effettivo benessere della famiglia.

 Da questo tipo di analisi molti, fra gli economisti e i sociologi, fanno derivare la supremazia del modello familiare predominante nel Nord Europa e nel Nord America, che si caratterizza per legami familiari meno forti, maggiore mobilità dei componenti della famiglia, con i giovani che lasciano la casa paterna già in connessione con l’ingresso nell’Università o addirittura con il liceo. In questa famiglia una grande quantità di servizi non è prodotta in casa, soprattutto dalle donne, ma acquistata sul mercato (pasti pre-confezionati, l’asilo nido per i piccoli, il collegio per i figli più grandi, l’ospizio per gli anziani e via dicendo). Le donne partecipano al mercato del lavoro in misura crescente, prossima a quella degli uomini. Il PIL “ufficiale” è più alto.

In alcuni Paesi (tipicamente quelli scandinavi) i servizi per la famiglia sono offerti gratuitamente, o con tariffe molto inferiori al costo di produzione, dal settore pubblico e sono finanziati con una elevata tassazione dei redditi . In altri (tipicamente gli Stati Uniti) la tassazione dei redditi è più bassa, i privati hanno un maggior reddito disponibile e acquistano i servizi di cui la famiglia ha bisogno sul mercato, a prezzi di mercato.
Perché, anche a voler limitare l’analisi al mondo occidentale, esistono modelli familiari così differenziati? Queste differenze si vanno attenuando? Una domanda ancor più significativa: esiste un modello familiare superiore al quale tendere, anche con deliberate politiche economiche e sociali?

 Si tratta di domande impegnative, intorno alle quali si sviluppano analisi approfondite e che alimentano accesi dibattiti, anche in chiave di azione politica. Personalmente, non mi sento in grado di fare altro se non riprendere sinteticamente  alcuni elementi del dibattito. 

I diversi modelli familiari si fanno sovente risalire a tradizioni, a credenze religiose, a culture che si sono stratificate e consolidate nei secoli. Queste profonde radici renderebbero non solo lento, ma anche incompleto, il processo di convergenza, peraltro in corso, dal tipo di famiglia connotato da più forti legami a quello con minori vincoli e con legami più deboli (Reher cit.). Non manca, peraltro, chi guarda con favore a un moto di convergenza non solo veloce, ma anche reso più celere da appropriati interventi di politica socio-economica.

 Dire che la soluzione del problema debba essere ricercata attraverso un equilibrato dosaggio dei punti di forza dei diversi modelli di famiglia può apparire una comoda e facile via d’uscita da questioni spinose. E tuttavia, a me sembra che sia a livello di interventi educativi e formativi soprattutto delle giovani generazioni sia a livello di provvidenze, incentivi e disincentivi dei governi nazionali e locali, la strada da percorrere sia quella dell’equilibrio, che porti a valorizzare, in una visione completa e di lungo periodo, le componenti più sane,più solide dei due modelli.

 Qualche esempio può aiutarci a capire meglio la questione, sia pure a livello intuitivo più  che analitico.

 Di alcuni limiti del modello famigliare che definiamo “a legami forti”, tipico del nostro paese, abbiamo già parlato. Essi  si rinvengono, ad esempio, nel ritardo di emancipazione dei giovani ( ricordiamo le recenti polemiche sui “ bamboccioni “ ! ) ma  ruotano fondamentalmente intorno al ruolo della donna. Impegnata a tempo pieno nei lavori domestici, il suo contributo alla crescita del PIL non è statisticamente rilevato. Ma c’è di più: molte donne potrebbero, se entrassero nel mondo del lavoro, svolgere mansioni capaci di produrre un valore aggiunto ben più elevato di quello contenuto nei servizi domestici. Ne scaturiscono, sul piano strettamente economico, cospicue perdite di prodotto e di reddito, su quello psicologico, frustrazioni e risentimenti delle donne costrette a casa.

 Ma il tipo di famiglia che prevale nel Nord Europa e nel Nord America, che è da molti considerato un esempio verso il quale tendere, non è esso stesso privo di aspetti che fanno riflettere.

 All’inizio dell’anno, la rivista inglese “The Economist” (January 2nd 2010), una rivista, lo voglio sottolineare, improntata alla linea liberale, laica della società inglese, ha dedicato un servizio alla crescente partecipazione femminile al mondo del lavoro, sottolineando come milioni di donne che un tempo dipendevano dagli uomini per il loro mantenimento sono diventate padrone di sé stesse. Ma, sottolineava la rivista, le istituzioni sociali non si sono adeguate a questi mutamenti. <<Molti bambini hanno pagato un prezzo perché in una famiglia entrassero due stipendi>>. Concludeva “The Economist” :<<Se l’emancipazione delle donne è stato uno dei grandi mutamenti degli ultimi 50 anni, affrontarne le conseguenze sociali sarà una delle grandi sfide dei prossimi 50>>.

 Da quando, nella prima metà del secolo scorso, si sono sviluppati gli studi economico-statistici per pervenire alla compilazione sempre più accurata della contabilità nazionale e consentire alle autorità di governo di prendere decisioni di politica economica basate su una migliore conoscenza della realtà, il PIL è diventato l’aggregato alle cui variazioni, spesso trimestre dopo trimestre, tutti guardano per giudicare lo stato di salute di un’economia. E’ comune sentire che il livello del PIL sia sinonimo di livello di benessere. Ma spesso non è così. Forse anche fra le nostre conoscenze vediamo esempi di persone benestanti ma infelici e di persone di ben più modeste condizioni economiche ma felici.

 Gli studiosi di economia, i sociologi non da ieri ricercano indicatori di benessere da affiancare al PIL per valutare il livello di sviluppo di un paese. In questo contesto, ad esempio, è molto importante il grado di equità nella distribuzione del reddito, rilevano le ripercussioni della crescita del PIL sull’ambiente e, quindi, sul benessere delle future generazioni; rilevano qualità e condizioni soggettive che costituiscono la qualità della vita, dalla cura dei bambini e degli anziani, alla condizione di un’unione matrimoniale, alle prospettive di lavoro. A settembre dello scorso anno una Commissione voluta dal Presidente francese Sarkozy e composta da illustri economisti, fra i quali i premi Nobel Stiglitz e Sen, ha reso pubblico un lungo rapporto sulla “Misurazione dei risultati economici e del progresso sociale” (www.stiglitz-sen-fitoussi.fr) nel quale si auspica l’abbandono del “feticismo del PIL”.   

 Questo feticismo “ mette a nudo le carenze e le contraddizioni di una società orientata prevalentemente,se non esclusivamente,da criteri di efficienza e funzionalità “ ( Compendio,cit. pag.124 ). Se lo spirito di questi criteri si impadronisce della vita della famiglia, ridotta a poco più che a una semplice unità produttiva, si perde la rete di rapporti interpersonali, interni ed esterni, che fanno perno sulla famiglia, intesa come “ scuola di socialità “, all’insegna del dialogo,della gratuità, del dono che nasce dall’amore. Come ricordava Benedetto XVI nella “ Caritas in veritate “ una visione solo produttivistica ed utilitaristica dell’esistenza fa perdere all’uomo la “ stupefacente esperienza del dono “ (Cap. Terzo, 34 ).

 Non mancano indicatori di  forte disagio sociale in paesi nei quali sono minori i vincoli familiari. Si pensi all’elevato tasso di suicidio in alcuni paesi del Nord Europa, alle manifestazioni di disagio giovanile nel Nord America, soprattutto fra la popolazione di origine afro-americana, con un numero relativamente alto di carcerati.

 Vorrei trarre qualche breve riflessione conclusiva dalla serie di esempi che ho appena presentato, con un occhio particolarmente attento al nostro Paese. L’Italia non sfugge ai mutamenti sociali, che un po’ in tutto il mondo, stanno interessando l’istituto familiare. Nei giorni scorsi, la Banca d’Italia ha pubblicato i risultati dell’indagine campionaria sui consumi e il risparmio delle famiglie che il Servizio Studi effettua ogni due anni, ormai da alcuni decenni (Banca d’Italia, I bilanci delle famiglie italiane nell’anno 2008, Supplemento al Bollettino Statistico,Anno XX,10 feb.2010,n. 8 ). Una sezione dell’indagine fornisce informazioni sulla struttura della famiglia. Nel 1978, il 62 per cento delle famiglie italiane era costituito da una coppia con figli; i “singoli” erano pari all’8,5 per cento del totale. Trent’anni dopo, nel 2008, la tipologia “coppia con figli” si era ridotta al 39 per cento, quella “singoli” era salita al 26 per cento. Nello stesso periodo, il numero medio dei figli minorenni per famiglia è sceso da 0,75 a 0,40 circa. Sappiamo, dalle statistiche demografiche, che il nostro Paese ha uno dei tassi di fertilità più bassi del mondo.

 Di fronte a cambiamenti di questa portata chi ha responsabilità sociali, educative, politiche, religiose può restare indifferente, un po’ come l’”asin bigio” della poesia carducciana. Può invece valutare che i mutamenti in corso sono buoni perché spingono il nostro Paese verso assetti ritenuti più progrediti, più moderni, nei quali ognuno, uomo o donna, giovane o adulto, può liberamente ricercare la propria soddisfazione personale, finalmente libero da condizionamenti sociali, culturali, religiosi. Chi così pensa fa anche tutto il possibile, nell’ambito della propria sfera di influenza, perché il moto in atto verso l’individualismo più sfrenato acceleri.

 Ma c’è una terza categoria di cittadini, alla quale io credo che dovremmo impegnarci ad appartenere e che dovremmo sostenere, che deve essere protagonista attiva dei mutamenti sociali, conciliando la lungimiranza della visione con la salvaguardia degli essenziali valori sui quali si fonda la nostra cultura, la nostra civiltà.

 POLITICHE DELLA FAMIGLIA IN ITALIA

 Poco più di dieci anni fa, l’allora Presidente del Consiglio, On. Prodi, nominò una “Commissione per l’analisi delle compatibilità macroeconomiche della spesa sociale”, di cui fu presidente il Prof. Onofri. E’ in corso di pubblicazione un volume che riesamina la materia a dieci anni di distanza, partendo dalla costatazione che le indicazioni della Commissione sono rimaste largamente disattese ( L.Guerzoni,a cura di, La riforma del welfare, Il Mulino ).

 Se puntiamo lo sguardo alle politiche della famiglia, alcuni dei contributi che compongono il volume ( in particolare Brandolini e Saraceno ) rilevano che esse, come tali, erano assenti dalla Relazione Onofri e che, ancora oggi, l’Italia rimane l’unico tra i grandi paesi avanzati a non disporre di una politica organica di sostegno alle responsabilità familiari e, in particolare, al costo dei figli. Ed ancora, si fa notare che le politiche di sostegno alle responsabilità familiari hanno, nel nostro Paese, una lunga storia di marginalità nella cultura sia politica che degli studi sul welfare.

 Non sorprende allora che la famiglia italiana abbia svolto, stando ai risultati di una ricerca di due economisti della Banca d’Italia, un ruolo redistributivo estremamente significativo, assorbendo, almeno fino agli inizi di questo millennio, fra il 70 e il 90 per cento della disuguaglianza tra individui (G. D’Alessio – L. F. Signorini, Disuguaglianza dei redditi individuali e ruolo della famiglia in Italia, Banca d’Italia, Temi di discussione del Servizio Studi, n. 390, dic. 2000). Solo negli anni più recenti, la riduzione del numero dei figli, l’aumento dell’occupazione femminile sembrano aver attenuato questo ruolo.

 Ma quali sono le ragioni della marginalità delle politiche della famiglia in Italia? Gli studi contenuti nel volume che ho ricordato ne individuano alcune. In primo luogo, lo stato delle finanze pubbliche che lascia poco spazio a nuove misure di spesa, senza che sia prima stato attuato un organico riequilibrio nella composizione della spesa. Le tre grandi categorie di spesa sociale, previdenza, sanità, assistenza, hanno risentito <<dell’impianto fortemente lavoristico del welfare state italiano>>, orientato principalmente alla difesa dei diritti dei singoli lavoratori e  pensionati. Sulla marginalità delle politiche per la famiglia hanno inoltre finito per pesare concezioni molto diverse sia della famiglia sia delle relazioni fra Stato e famiglia. L’incapacità di risolvere certi conflitti ideologici ha di fatto bloccato lo svolgersi di organici provvedimenti costitutivi di un’autentica politica per la famiglia.

 Nel frattempo, l’evoluzione della società ha acuito i disagi che nascono dall’assenza di politiche per la famiglia. Si pensi alla sequenza di eventi che parte dal desiderio delle donne di entrare nel mondo del lavoro sia per esigenze di reddito sia per soddisfare legittime aspirazioni di realizzazione umana e sociale e prosegue con la rinuncia ad avere i figli desiderati, per l’impossibilità di conciliare la maternità con la professione o per il costo eccessivo del mantenimento di un figlio. La bassa natalità a sua volta contribuisce all’invecchiamento della popolazione che già pone, e ancor di più porrà, rilevanti problemi socio-economici e di sostenibilità della finanza pubblica. I risultati di una recente ricerca (A. Favretto, portale <<Famigliaonline>> su Corriere della Sera, 16 feb. 2010) offrono, pur osservando tutte le cautele nel trarre conclusioni generali da indagini limitate, un esempio di possibili legami fra azioni di politica per le famiglie e evoluzione demografica e sociale. Ebbene, la ricerca citata ha evidenziato l’esistenza di una forte correlazione,nelle regioni italiane, fra disponibilità  di servizi per l’infanzia e numero medio dei figli. Nella ricerca si riporta una citazione del Premio Nobel per l’economia James Heckman, che ha dedicato molti dei suoi studi all’importanza della famiglia come luogo favorito per lo sviluppo del capitale umano, partendo in particolare dai bambini, dai giovani.  Mi piace riportarla: << Gli interventi di qualità per la prima infanzia hanno effetti duraturi. Le loro ricadute economiche nel tempo sul benessere della collettività sono dimostrate>>.

 Sento di condividere i tre obiettivi, tra loro connessi, che una politica per la famiglia dovrebbe porsi, individuati nel ricordato volume dedicato ad un welfare rinnovato in Italia.

 Essi sono: conciliazione tra partecipazione al mercato del lavoro e assunzione di responsabilità di cura per donne e uomini; sostegno al costo dei figli; benessere e pari opportunità tra i minori. 

Il primo obiettivo postula, in particolare, mutamenti nell’organizzazione del tempo di lavoro,nuove tipologie di lavoro, una nuova, più ampia offerta di servizi e, sullo sfondo, diverse modalità di distribuzione, fra uomini e donne, delle responsabilità familiari. Il secondo obiettivo deve, fra l’altro, se non eliminare, almeno fortemente attenuare l’equivalenza, che oggi spesso si registra,  fra numerosità dei figli e povertà della famiglia o, visto da un altro punto d’osservazione, prevenire la denatalità motivata esclusivamente dal costo di un figlio. L’ultimo obiettivo, infine, chiama a significativi investimenti sui bambini, sui minori; una società evoluta, infatti, non deve accettare che il futuro dei  suoi figli sia determinato prevalentemente, se non esclusivamente, dall’origine familiare.

 CONCLUSIONI

Gli sviluppi demografici,le trasformazioni delle relazioni, a partire da quelle che vigono fra i componenti di una famiglia, si ripercuotono sulla società, sull’economia, sulle aspettative economiche attraverso complesse concatenazioni. Le trasformazioni sono spesso lente e, a meno di essere acuti osservatori della realtà, vengono percepite solo dopo che hanno profondamente alterato la realtà pre-esistente. In altri casi, quelle trasformazioni sono rapide e difficili da controllare al pari di un torrente in piena.

I nostri sono tempi di trasformazioni,sia lente sia impetuose.

 In una conferenza del 2004, l’allora Cardinale Ratzinger ( M.Pera-J.Ratzinger, Senza radici, Mondatori, 2004 ) trattò il tema delle radici dell’Europa, del sistema di valori del Vecchio Continente, perdendo i quali  l’Europa perderebbe la sua identità e si avvierebbe verso un declino che molti già intravedono con indifferenza, se non con compiacimento. Nella sua relazione,l’attuale Pontefice fece riferimento a due diagnosi contrapposte, utilizzabili per valutare il futuro dell’Europa. La prima si riallaccia al pensiero dello storico Spengler, che aveva ipotizzato una specie di legge naturale anche per le civiltà: esse nascono, crescono, fioriscono, ma poi declinano fino a spegnersi. Per alcuni, la civiltà europea che abbiamo conosciuto sarebbe ormai nella fase finale della sua storia.

 Il secondo paradigma interpretativo  si riallaccia ad un altro pensatore dell’inizio del secolo scorso, Toynbee, il quale, già ai suoi tempi, rilevava una crisi dell’Occidente, che attribuiva al passaggio dalla religione al culto della tecnica, al quale aggiungeva anche quello della nazione e della forza militare. Per Toynbee la guarigione era possibile ed era rimessa alla “ forza delle minoranze creative “, alle “ singole personalità eccezionali “ capaci di reintrodurre l’eredità del cristianesimo occidentale.

Joseph Ratzinger si sentiva, in quella conferenza, di condividere il pensiero di Toynbee che il destino di una società dipende sempre da minoranze creative. Concludeva che i “ cristiani dovrebbero concepire se stessi come una tale minoranza creativa “.

Faccio mia questa conclusione che impegna i cristiani ma, vorrei aggiungere, tutti gli uomini di buona volontà, nella famiglia, nella scuola, della politica, nelle istituzioni della società civile e in quelle della Chiesa.

 

 

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