(26
febbraio 2010)
INTRODUZIONE
Nel prendere la parola in
un Convegno che affronta temi di attualità di indole
sociologica, formativa, politica, economica propri della
famiglia, ho voluto prendere le mosse da alcuni testi,
da alcuni studi che si possono considerare emblematici.
La
Costituzione della Repubblica italiana tratta della
famiglia in tre articoli: 29, 30 e 31. Definisce la
famiglia come società naturale fondata sul matrimonio e
ne riconosce i diritti propri. Attribuisce ai genitori
il diritto-dovere di mantenere, istruire, educare i
figli. Impegna la Repubblica ad agevolare la formazione
della famiglia con misure economiche e altre
provvidenze.
Il Codice Civile tratta,
nel Capo IV, dei diritti e dei doveri che nascono dal
matrimonio; essi attengono sia ai rapporti tra i due
coniugi sia ai loro obblighi verso i figli, verso la
famiglia.
Questi testi non sono
frutto di improvvisazione; riflettono la tradizione, la
cultura di un paese. Certo, si possono modificare, ma
sarebbe pernicioso farlo senza un’adeguata valutazione
delle conseguenze di lungo termine. Grave sarebbe, in
qualche misura è, come vedremo più avanti, la loro
sostanziale inosservanza.
La Dottrina sociale della
Chiesa (Pontificio Consiglio della Giustizia e della
Pace, Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa,
Libreria editrice vaticana, 2004) definisce la famiglia
“cellula vitale della società”, “prima società naturale,
titolare di diritti propri ed originari” e la pone al
centro della vita sociale. Per la Chiesa cattolica la
famiglia è un’istituzione divina che sta a fondamento
della vita delle persone. La famiglia è prioritaria
rispetto alla società e allo Stato ed è la miglior
garanzia contro ogni deriva di tipo individualista o
collettivista.
Attraverso
il tempo e attraverso lo spazio occupato dalla nostra
terra si sono avuti, e sussistono tuttora, modelli di
famiglia molto diversi. Non è questa la sede per un loro
esame approfondito, né io avrei la capacità di farlo. Mi
limito a ricordare, in termini molto schematici, due
modelli diffusi nell’attuale mondo occidentale, anche
perché ad essi farò ancora riferimento nel seguito della
mia relazione.
In
molte analisi, sia sociologiche sia economiche, si
suddividono le famiglie sulla base della solidità e
dell’articolazione dei legami che uniscono i componenti
di una famiglia (David Sven Reher, Family Ties in
Western Europe: Persistent Contracts, in
Population and Development Review, Vol.-24, N° 2, June
1998).Si parla allora di famiglie con legami “forti”,
prevalenti nei paesi europei dell’area mediterranea, e
di famiglie con legami “deboli” che caratterizzano le
società del Nord Europa e del Nord America. Alla base di
questi diversi modelli familiari vi è di regola una
storia plurisecolare, con i suoi connotati tradizionali,
culturali, religiosi, ambientali, economici. Il
dibattito sempre aperto sulla supremazia di un modello
sull’altro risente spesso e, aggiungo, inevitabilmente
di a-priori ideologici.
Se
interroghiamo la nostra personale esperienza, ovviamente
tanto più ricca e articolata quanto più indietro nel
tempo ritroviamo l’anno della nostra nascita, possiamo
agevolmente toccare con mano i cambiamenti già
intervenuti e quelli in atto nella famiglia,anche
prescindendo da ogni giudizio di valore.
Pensiamo
solamente alle norme introdotte nel nostro ordinamento
giuridico per regolare il divorzio e l’aborto, alla
diffusione degli anticoncezionali. Riflettiamo al
diverso atteggiamento sociale verso le convivenze, verso
le giovani donne non sposate con un figlio. Contiamo
quante donne nel nostro ambiente di 50 anni fa
lavoravano fuori dall’ambiente familiare e quante vi
lavorano oggi. Si potrebbe continuare con gli esempi.
Mi
limito, a conclusione di questa breve sezione
introduttiva, a citare un recente articolo del sociologo
Francesco Alberoni (Le coppie e l’unione perfetta –
Matrimonio? Sì, finché dura, Corriere della Sera,
15-2-2010). “Un tempo si sposavano tutti, il matrimonio
era la base stabile della casa, della famiglia….. Il
matrimonio doveva essere indissolubile e fino alla
morte. Oggi tutto è cambiato”. La conclusione di
Alberoni è programmatica: “….. a volte mi domando se,
pur non toccando affatto il matrimonio tradizionale, non
sia il caso di studiare anche altre formule legali o
contratti matrimoniali che consentano soluzioni più
articolate adatte alle diverse circostanze del nostro
tempo”. Nell’articolo che sto citando la vita, e quindi
anche la morte, di un matrimonio sono legate all’intesa
amorosa, con un forte ruolo della componente passionale,
erotica.
Un
breve commento, stimolato dall’enfasi che il nostro
Convegno pone sull’importanza dell’educazione e della
formazione. L’uomo non è deterministicamente succube
delle passioni; può essere educato a dominarle, a far
prevalere valori e motivazioni profonde. Al contrario,
la nostra società, attraverso la stampa, il cinema, la
televisione esalta stili di vita nei quali predomina la
ricerca ossessiva del benessere, del piacere
individuale, nei quali sono assenti valori quali, per
rimanere nell’ambito della famiglia, la responsabilità
verso l’altro coniuge, verso i figli, verso le
generazioni precedenti e quelle future. Le famiglie più
solide, la scuola, la società civile e la Chiesa
attraverso le loro molteplici istituzioni hanno, in
questo contesto, enormi responsabilità se si vuole
frenare, dapprima, ribaltare, successivamente, quella
che a me sembra una deriva verso il disfacimento della
nostra civiltà.
MODELLI FAMILIARI
Limitando
l’analisi all’ultimo secolo, notiamo che il modello di
famiglia dominante in Italia e, più in generale,
nell’area latino-mediterranea ha visto al vertice l’uomo
che col suo lavoro nei campi, nella fabbrica, nella
bottega, nell’ufficio si procura un reddito destinato al
mantenimento, oltre che di se stesso, della moglie e dei
figli. La donna, in questo modello, è tipicamente
addetta ai lavori casalinghi, con un forte impegno
nell’allevamento dei figli. La partecipazione femminile
al mercato del lavoro è relativamente bassa.
Data la metodologia
statistica con la quale è costruita la contabilità
nazionale, è l’uomo, nel modello semplificato che sto
illustrando, che produce i beni e i servizi che
determinano il valore del prodotto interno lordo di un
paese (il PIL, sigla magica che si è spesso portati a
considerare sinonimo di benessere).
I
servizi prodotti da una donna all’interno delle mura
domestiche (cucinare, pulire, assistere figli, anziani,
malati) non sono valorizzati ai fini del calcolo del
PIL. Se io, tornando la sera a casa, mi siedo a tavola e
consumo una buona cena preparata da mia moglie, il PIL
non è interessato. Ma se la stessa cena viene cucinata
da una collaboratrice domestica, il PIL cresce in misura
pari al suo stipendio. Analogamente, si hanno diversi
effetti sul PIL a seconda che un anziano sia accudito in
casa da una figlia o da una nuora o sia invece assistito
in un Istituto di riposo.
Di
recente, due economisti italiani hanno cercato di
valutare la ricchezza che hanno definito “fatta in
casa”, soprattutto dalle donne italiane (A. Alesina –
A.Ichino, L’Italia fatta in casa, Mondadori, 2009).
Mettendo a confronto quattro Paesi (Italia, Norvegia,
Spagna e Stati Uniti), rilevano che il prodotto
giornaliero “ufficiale” in euro di un lavoratore
(derivato quindi dalle statistiche relative al PIL) è in
Italia simile, anche se lievemente inferiore, a quello
spagnolo, ma notevolmente più basso che in Norvegia e
negli Stati Uniti. Attraverso opportune e complesse
stime gli autori cercano poi di misurare, per ciascuno
dei 4 Paesi, il maggior prodotto giornaliero se al
prodotto “ufficiale” (il famoso PIL!) si aggiunge quello
attribuibile in particolare alle donne per il benessere
delle rispettive famiglie.
L’incremento
di prodotto che si ricava per l’Italia è di gran lunga
maggiore, soprattutto nel confronto con Norvegia e Stati
Uniti. La donna italiana, di qualunque età, produce
relativamente poco “per le statistiche”, ma
relativamente tanto per l’effettivo benessere della
famiglia.
Da
questo tipo di analisi molti, fra gli economisti e i
sociologi, fanno derivare la supremazia del modello
familiare predominante nel Nord Europa e nel Nord
America, che si caratterizza per legami familiari meno
forti, maggiore mobilità dei componenti della famiglia,
con i giovani che lasciano la casa paterna già in
connessione con l’ingresso nell’Università o addirittura
con il liceo. In questa famiglia una grande quantità di
servizi non è prodotta in casa, soprattutto dalle donne,
ma acquistata sul mercato (pasti pre-confezionati,
l’asilo nido per i piccoli, il collegio per i figli più
grandi, l’ospizio per gli anziani e via dicendo). Le
donne partecipano al mercato del lavoro in misura
crescente, prossima a quella degli uomini. Il PIL
“ufficiale” è più alto.
In alcuni Paesi
(tipicamente quelli scandinavi) i servizi per la
famiglia sono offerti gratuitamente, o con tariffe molto
inferiori al costo di produzione, dal settore pubblico e
sono finanziati con una elevata tassazione dei redditi .
In altri (tipicamente gli Stati Uniti) la tassazione dei
redditi è più bassa, i privati hanno un maggior reddito
disponibile e acquistano i servizi di cui la famiglia ha
bisogno sul mercato, a prezzi di mercato.
Perché, anche a voler limitare l’analisi al mondo
occidentale, esistono modelli familiari così
differenziati? Queste differenze si vanno attenuando?
Una domanda ancor più significativa: esiste un modello
familiare superiore al quale tendere, anche con
deliberate politiche economiche e sociali?
Si
tratta di domande impegnative, intorno alle quali si
sviluppano analisi approfondite e che alimentano accesi
dibattiti, anche in chiave di azione politica.
Personalmente, non mi sento in grado di fare altro se
non riprendere sinteticamente alcuni elementi del
dibattito.
I diversi modelli
familiari si fanno sovente risalire a tradizioni, a
credenze religiose, a culture che si sono stratificate e
consolidate nei secoli. Queste profonde radici
renderebbero non solo lento, ma anche incompleto, il
processo di convergenza, peraltro in corso, dal tipo di
famiglia connotato da più forti legami a quello con
minori vincoli e con legami più deboli (Reher cit.). Non
manca, peraltro, chi guarda con favore a un moto di
convergenza non solo veloce, ma anche reso più celere da
appropriati interventi di politica socio-economica.
Dire
che la soluzione del problema debba essere ricercata
attraverso un equilibrato dosaggio dei punti di forza
dei diversi modelli di famiglia può apparire una comoda
e facile via d’uscita da questioni spinose. E tuttavia,
a me sembra che sia a livello di interventi educativi e
formativi soprattutto delle giovani generazioni sia a
livello di provvidenze, incentivi e disincentivi dei
governi nazionali e locali, la strada da percorrere sia
quella dell’equilibrio, che porti a valorizzare, in una
visione completa e di lungo periodo, le componenti più
sane,più solide dei due modelli.
Qualche
esempio può aiutarci a capire meglio la questione, sia
pure a livello intuitivo più che analitico.
Di
alcuni limiti del modello famigliare che definiamo “a
legami forti”, tipico del nostro paese, abbiamo già
parlato. Essi si rinvengono, ad esempio, nel
ritardo di emancipazione dei giovani ( ricordiamo le
recenti polemiche sui “ bamboccioni “ ! ) ma ruotano
fondamentalmente intorno al ruolo della donna. Impegnata
a tempo pieno nei lavori domestici, il suo contributo
alla crescita del PIL non è statisticamente rilevato. Ma
c’è di più: molte donne potrebbero, se entrassero nel
mondo del lavoro, svolgere mansioni capaci di produrre
un valore aggiunto ben più elevato di quello contenuto
nei servizi domestici. Ne scaturiscono, sul piano
strettamente economico, cospicue perdite di prodotto e
di reddito, su quello psicologico, frustrazioni e
risentimenti delle donne costrette a casa.
Ma
il tipo di famiglia che prevale nel Nord Europa e nel
Nord America, che è da molti considerato un esempio
verso il quale tendere, non è esso stesso privo di
aspetti che fanno riflettere.
All’inizio
dell’anno, la rivista inglese “The Economist” (January
2nd 2010), una rivista, lo voglio sottolineare,
improntata alla linea liberale, laica della società
inglese, ha dedicato un servizio alla crescente
partecipazione femminile al mondo del lavoro,
sottolineando come milioni di donne che un tempo
dipendevano dagli uomini per il loro mantenimento sono
diventate padrone di sé stesse. Ma, sottolineava la
rivista, le istituzioni sociali non si sono adeguate a
questi mutamenti. <<Molti bambini hanno pagato un prezzo
perché in una famiglia entrassero due stipendi>>.
Concludeva “The Economist” :<<Se l’emancipazione delle
donne è stato uno dei grandi mutamenti degli ultimi 50
anni, affrontarne le conseguenze sociali sarà una delle
grandi sfide dei prossimi 50>>.
Da
quando, nella prima metà del secolo scorso, si sono
sviluppati gli studi economico-statistici per pervenire
alla compilazione sempre più accurata della contabilità
nazionale e consentire alle autorità di governo di
prendere decisioni di politica economica basate su una
migliore conoscenza della realtà, il PIL è diventato
l’aggregato alle cui variazioni, spesso trimestre dopo
trimestre, tutti guardano per giudicare lo stato di
salute di un’economia. E’ comune sentire che il livello
del PIL sia sinonimo di livello di benessere. Ma spesso
non è così. Forse anche fra le nostre conoscenze vediamo
esempi di persone benestanti ma infelici e di persone di
ben più modeste condizioni economiche ma felici.
Gli
studiosi di economia, i sociologi non da ieri ricercano
indicatori di benessere da affiancare al PIL per
valutare il livello di sviluppo di un paese. In questo
contesto, ad esempio, è molto importante il grado di
equità nella distribuzione del reddito, rilevano le
ripercussioni della crescita del PIL sull’ambiente e,
quindi, sul benessere delle future generazioni; rilevano
qualità e condizioni soggettive che costituiscono la
qualità della vita, dalla cura dei bambini e degli
anziani, alla condizione di un’unione matrimoniale, alle
prospettive di lavoro. A settembre dello scorso anno una
Commissione voluta dal Presidente francese Sarkozy e
composta da illustri economisti, fra i quali i premi
Nobel Stiglitz e Sen, ha reso pubblico un lungo rapporto
sulla “Misurazione dei risultati economici e del
progresso sociale” (www.stiglitz-sen-fitoussi.fr)
nel quale si auspica l’abbandono del “feticismo del
PIL”.
Questo
feticismo “ mette a nudo le carenze e le contraddizioni
di una società orientata prevalentemente,se non
esclusivamente,da criteri di efficienza e funzionalità “
( Compendio,cit. pag.124 ). Se lo spirito di questi
criteri si impadronisce della vita della famiglia,
ridotta a poco più che a una semplice unità produttiva,
si perde la rete di rapporti interpersonali, interni ed
esterni, che fanno perno sulla famiglia, intesa come “
scuola di socialità “, all’insegna del dialogo,della
gratuità, del dono che nasce dall’amore. Come ricordava
Benedetto XVI nella “ Caritas in veritate “ una visione
solo produttivistica ed utilitaristica dell’esistenza fa
perdere all’uomo la “ stupefacente esperienza del dono “
(Cap. Terzo, 34 ).
Non
mancano indicatori di forte disagio sociale in paesi
nei quali sono minori i vincoli familiari. Si pensi
all’elevato tasso di suicidio in alcuni paesi del Nord
Europa, alle manifestazioni di disagio giovanile nel
Nord America, soprattutto fra la popolazione di origine
afro-americana, con un numero relativamente alto di
carcerati.
Vorrei
trarre qualche breve riflessione conclusiva dalla serie
di esempi che ho appena presentato, con un occhio
particolarmente attento al nostro Paese. L’Italia non
sfugge ai mutamenti sociali, che un po’ in tutto il
mondo, stanno interessando l’istituto familiare. Nei
giorni scorsi, la Banca d’Italia ha pubblicato i
risultati dell’indagine campionaria sui consumi e il
risparmio delle famiglie che il Servizio Studi effettua
ogni due anni, ormai da alcuni decenni (Banca d’Italia,
I bilanci delle famiglie italiane nell’anno 2008,
Supplemento al Bollettino Statistico,Anno XX,10
feb.2010,n. 8 ). Una sezione dell’indagine fornisce
informazioni sulla struttura della famiglia. Nel 1978,
il 62 per cento delle famiglie italiane era costituito
da una coppia con figli; i “singoli” erano pari all’8,5
per cento del totale. Trent’anni dopo, nel 2008, la
tipologia “coppia con figli” si era ridotta al 39 per
cento, quella “singoli” era salita al 26 per cento.
Nello stesso periodo, il numero medio dei figli
minorenni per famiglia è sceso da 0,75 a 0,40 circa.
Sappiamo, dalle statistiche demografiche, che il nostro
Paese ha uno dei tassi di fertilità più bassi del mondo.
Di
fronte a cambiamenti di questa portata chi ha
responsabilità sociali, educative, politiche, religiose
può restare indifferente, un po’ come l’”asin bigio”
della poesia carducciana. Può invece valutare che i
mutamenti in corso sono buoni perché spingono il nostro
Paese verso assetti ritenuti più progrediti, più
moderni, nei quali ognuno, uomo o donna, giovane o
adulto, può liberamente ricercare la propria
soddisfazione personale, finalmente libero da
condizionamenti sociali, culturali, religiosi. Chi così
pensa fa anche tutto il possibile, nell’ambito della
propria sfera di influenza, perché il moto in atto verso
l’individualismo più sfrenato acceleri.
Ma
c’è una terza categoria di cittadini, alla quale io
credo che dovremmo impegnarci ad appartenere e che
dovremmo sostenere, che deve essere protagonista attiva
dei mutamenti sociali, conciliando la lungimiranza della
visione con la salvaguardia degli essenziali valori sui
quali si fonda la nostra cultura, la nostra civiltà.
POLITICHE
DELLA FAMIGLIA IN ITALIA
Poco
più di dieci anni fa, l’allora Presidente del Consiglio,
On. Prodi, nominò una “Commissione per l’analisi delle
compatibilità macroeconomiche della spesa sociale”, di
cui fu presidente il Prof. Onofri. E’ in corso di
pubblicazione un volume che riesamina la materia a dieci
anni di distanza, partendo dalla costatazione che le
indicazioni della Commissione sono rimaste largamente
disattese ( L.Guerzoni,a cura di, La riforma del
welfare, Il Mulino ).
Se
puntiamo lo sguardo alle politiche della famiglia,
alcuni dei contributi che compongono il volume ( in
particolare Brandolini e Saraceno ) rilevano che esse,
come tali, erano assenti dalla Relazione Onofri e che,
ancora oggi, l’Italia rimane l’unico tra i grandi paesi
avanzati a non disporre di una politica organica di
sostegno alle responsabilità familiari e, in
particolare, al costo dei figli. Ed ancora, si fa notare
che le politiche di sostegno alle responsabilità
familiari hanno, nel nostro Paese, una lunga storia di
marginalità nella cultura sia politica che degli studi
sul welfare.
Non
sorprende allora che la famiglia italiana abbia svolto,
stando ai risultati di una ricerca di due economisti
della Banca d’Italia, un ruolo redistributivo
estremamente significativo, assorbendo, almeno fino agli
inizi di questo millennio, fra il 70 e il 90 per cento
della disuguaglianza tra individui (G. D’Alessio – L. F.
Signorini, Disuguaglianza dei redditi individuali e
ruolo della famiglia in Italia, Banca d’Italia, Temi di
discussione del Servizio Studi, n. 390, dic. 2000). Solo
negli anni più recenti, la riduzione del numero dei
figli, l’aumento dell’occupazione femminile sembrano
aver attenuato questo ruolo.
Ma
quali sono le ragioni della marginalità delle politiche
della famiglia in Italia? Gli studi contenuti nel volume
che ho ricordato ne individuano alcune. In primo luogo,
lo stato delle finanze pubbliche che lascia poco spazio
a nuove misure di spesa, senza che sia prima stato
attuato un organico riequilibrio nella composizione
della spesa. Le tre grandi categorie di spesa sociale,
previdenza, sanità, assistenza, hanno risentito
<<dell’impianto fortemente lavoristico del welfare state
italiano>>, orientato principalmente alla difesa dei
diritti dei singoli lavoratori e pensionati. Sulla
marginalità delle politiche per la famiglia hanno
inoltre finito per pesare concezioni molto diverse sia
della famiglia sia delle relazioni fra Stato e famiglia.
L’incapacità di risolvere certi conflitti ideologici ha
di fatto bloccato lo svolgersi di organici provvedimenti
costitutivi di un’autentica politica per la famiglia.
Nel
frattempo, l’evoluzione della società ha acuito i disagi
che nascono dall’assenza di politiche per la famiglia.
Si pensi alla sequenza di eventi che parte dal desiderio
delle donne di entrare nel mondo del lavoro sia per
esigenze di reddito sia per soddisfare legittime
aspirazioni di realizzazione umana e sociale e prosegue
con la rinuncia ad avere i figli desiderati, per
l’impossibilità di conciliare la maternità con la
professione o per il costo eccessivo del mantenimento di
un figlio. La bassa natalità a sua volta contribuisce
all’invecchiamento della popolazione che già pone, e
ancor di più porrà, rilevanti problemi socio-economici e
di sostenibilità della finanza pubblica. I risultati di
una recente ricerca (A. Favretto, portale
<<Famigliaonline>> su Corriere della Sera, 16 feb. 2010)
offrono, pur osservando tutte le cautele nel trarre
conclusioni generali da indagini limitate, un esempio di
possibili legami fra azioni di politica per le famiglie
e evoluzione demografica e sociale. Ebbene, la ricerca
citata ha evidenziato l’esistenza di una forte
correlazione,nelle regioni italiane, fra disponibilità
di servizi per l’infanzia e numero medio dei figli.
Nella ricerca si riporta una citazione del Premio Nobel
per l’economia James Heckman, che ha dedicato molti dei
suoi studi all’importanza della famiglia come luogo
favorito per lo sviluppo del capitale umano, partendo in
particolare dai bambini, dai giovani. Mi piace
riportarla: << Gli interventi di qualità per la prima
infanzia hanno effetti duraturi. Le loro ricadute
economiche nel tempo sul benessere della collettività
sono dimostrate>>.
Sento
di condividere i tre obiettivi, tra loro connessi, che
una politica per la famiglia dovrebbe porsi, individuati
nel ricordato volume dedicato ad un welfare rinnovato in
Italia.
Essi
sono: conciliazione tra partecipazione al mercato del
lavoro e assunzione di responsabilità di cura per donne
e uomini; sostegno al costo dei figli; benessere e pari
opportunità tra i minori.
Il primo obiettivo
postula, in particolare, mutamenti nell’organizzazione
del tempo di lavoro,nuove tipologie di lavoro, una
nuova, più ampia offerta di servizi e, sullo sfondo,
diverse modalità di distribuzione, fra uomini e donne,
delle responsabilità familiari. Il secondo obiettivo
deve, fra l’altro, se non eliminare, almeno fortemente
attenuare l’equivalenza, che oggi spesso si registra,
fra numerosità dei figli e povertà della famiglia o,
visto da un altro punto d’osservazione, prevenire la
denatalità motivata esclusivamente dal costo di un
figlio. L’ultimo obiettivo, infine, chiama a
significativi investimenti sui bambini, sui minori; una
società evoluta, infatti, non deve accettare che il
futuro dei suoi figli sia determinato
prevalentemente, se non esclusivamente, dall’origine
familiare.
CONCLUSIONI
Gli sviluppi
demografici,le trasformazioni delle relazioni, a partire
da quelle che vigono fra i componenti di una famiglia,
si ripercuotono sulla società, sull’economia, sulle
aspettative economiche attraverso complesse
concatenazioni. Le trasformazioni sono spesso lente e, a
meno di essere acuti osservatori della realtà, vengono
percepite solo dopo che hanno profondamente alterato la
realtà pre-esistente. In altri casi, quelle
trasformazioni sono rapide e difficili da controllare al
pari di un torrente in piena.
I nostri sono tempi di
trasformazioni,sia lente sia impetuose.
In
una conferenza del 2004, l’allora Cardinale Ratzinger (
M.Pera-J.Ratzinger, Senza radici, Mondatori, 2004 )
trattò il tema delle radici dell’Europa, del sistema di
valori del Vecchio Continente, perdendo i quali
l’Europa perderebbe la sua identità e si avvierebbe
verso un declino che molti già intravedono con
indifferenza, se non con compiacimento. Nella sua
relazione,l’attuale Pontefice fece riferimento a due
diagnosi contrapposte, utilizzabili per valutare il
futuro dell’Europa. La prima si riallaccia al pensiero
dello storico Spengler, che aveva ipotizzato una specie
di legge naturale anche per le civiltà: esse nascono,
crescono, fioriscono, ma poi declinano fino a spegnersi.
Per alcuni, la civiltà europea che abbiamo conosciuto
sarebbe ormai nella fase finale della sua storia.
Il
secondo paradigma interpretativo si riallaccia ad
un altro pensatore dell’inizio del secolo scorso,
Toynbee, il quale, già ai suoi tempi, rilevava una crisi
dell’Occidente, che attribuiva al passaggio dalla
religione al culto della tecnica, al quale aggiungeva
anche quello della nazione e della forza militare. Per
Toynbee la guarigione era possibile ed era rimessa alla
“ forza delle minoranze creative “, alle “ singole
personalità eccezionali “ capaci di reintrodurre
l’eredità del cristianesimo occidentale.
Joseph Ratzinger si
sentiva, in quella conferenza, di condividere il
pensiero di Toynbee che il destino di una società
dipende sempre da minoranze creative. Concludeva che i “
cristiani dovrebbero concepire se stessi come una tale
minoranza creativa “.
Faccio mia questa
conclusione che impegna i cristiani ma, vorrei
aggiungere, tutti gli uomini di buona volontà, nella
famiglia, nella scuola, della politica, nelle
istituzioni della società civile e in quelle della
Chiesa.