La donna del Kiwanis
1924 - Mentre nel 1924 lo Statuto del Kiwanis
International definisce il Kiwanis “una organizzazione
di uomini” in Italia prende avvio il Liceo femminile
istituito nel ’23 con la ben nota “Riforma Gentile”.
Il Liceo femminile “ha per fine di impartire un
complemento di cultura generale alle giovinette che
non aspirano né agli studi superiori né al
conseguimento di un diploma professionale”. La scuola
è riservata ad un’élite, infatti, la legge impone che
“non possono esserci più di 20 Licei femminili in
tutto il Regno”. Le giovinette diplomate non solo non
saranno abilitate ad alcun lavoro, ma nemmeno potranno
dirigere la propria scuola.
1972 - Mentre nel 1972 il Circle K International
ammette le donne fra i suoi soci in Italia diventa
popolare fra i giovani Fernanda Pivano, americanista,
allieva di Pavese e Vittorini, amica di Hemingway,
traduttrice di grandi scrittori contemporanei; nel
1967 aveva cominciato a far conoscere in Italia la
beat generation. Lina Wertmuller, tutt’oggi una delle
nostre poche donne regista, assapora il successo del
film Mimì metallurgico ferito nell’onore, film di
denuncia sociale. In Francia Nicole de Hauteclocque è
la prima donna sindaco di Parigi.
1977 – Mentre nel 1977 il Key Club International
ammette le donne fra i suoi soci in Italia è approvata
la legge per la parità tra uomo e donna in materia di
lavoro che afferma l’illegittimità di qualsiasi
discriminazione nelle assunzioni.
1987 - Mentre nel 1987, a grande maggioranza, i
delegati approvano l’iscrizione delle donne nel
Kiwanis negli Stati Uniti d’America il Congresso
dichiara il mese di marzo come il Mese della Storia
delle Donne “per riconoscere il contributo delle donne
nella storia e per promuovere l’insegnamento della
storia delle donne”. In Gran Bretagna Margaret
Thatcher è eletta Primo Ministro per la terza volta
consecutiva. In Italia Alma Sabatini lega il suo nome
a un libricino pubblicato dalla Commissione pari
opportunità della presidenza del Consiglio. Il
sessismo nella lingua italiana diventa un caso; con lo
studio del linguaggio degli annunci e delle offerte di
lavoro, della stampa, dei documenti della pubblica
amministrazione la Sabatini dimostra come la lingua
italiana sia strumentalizzata a scapito del genere
femminile e fortemente pregiudizievole nei confronti
delle donne. Unico territorio riconosciuto il mondo
della scuola, dove “professoressa” e “maestra”
appartengono, da sempre, al mondo femminile. E’ il
1987 dunque l’anno in cui il Kiwanis International
estende l’invito alle donne a far parte dei clubs.
1999 – Per il KC Alessandria è il 1999 l’anno della
svolta. Nella seduta elettiva per il presidente la
scelta è per una donna. E’ una preside, esponente di
spicco dell’ambiente culturale cittadino. A conferma
dell’assioma “la persona giusta al posto giusto” dopo
di lei altre donne si alterneranno al timone della
presidenza con obiettivo, sempre, il consolidamento
del club.
Oggi, la presenza femminile nel KC Alessandria è del
41% e l’età media di 55 anni. In consiglio la presenza
femminile è del 57%.
Donne Interpreti di sofferenza e di speranza: uno
sguardo alla storia
Cosa ci dice il libro della storia delle donne?
Ci ricollega all’odierna giornata di Studi Kiwaniani
la prima assise al femminile: l’Esposizione Beatrice
di lavori femminili organizzata da Angelo De
Gubernatis nel 1890 a Firenze. Alunne scrittrici
tennero una serie di conferenze sul tema “La donna
italiana”.
L’avvenimento – fra i più citati di quegli anni –
riunì molti intellettuali che, ondeggiando fra
trionfalismi e apprensioni, tratteggiarono la società
femminile italiana dell’epoca.
Incorniciata in trame intessute per l’occasione –
Beatrice Portinari e le donne della Divina Commedia –
la donna italiana ne uscì incarnata sì in sante,
regine, principesse, benefattrici, donne amanti, donne
in famiglia ma, anche, in termini più “moderni” di
scienziate, novellatrici, romanziere, attrici,
maestre, educatrici, studentesse, operaie.
La storia della condizione femminile racconta spesso
il mancato riconoscimento dei diritti e della dignità
della donna nelle società antiche, ma anche in quelle
più vicine a noi.
L’impossibilità di progettare il proprio ruolo e di
definire una sfera d’azione e di pensiero ha
rappresentato una realtà quotidiana con cui si sono
dovute confrontare le singole donne con le loro storie
di vita ordinaria.
Costrette a vivere in un universo “maschile” che aveva
stabilito in loro assenza le priorità e i valori di
riferimento, le donne sono state spesso indotte con
varie giustificazioni di ordine culturale privato, a
sacrificare le aspirazioni profonde, ma anche i ritmi
e i modi dell’esistenza concreta.
Gli scritti ottocenteschi sull’eccellenza spirituale
femminile – siano indifferentemente opere di uomini o
di donne – rappresentano modelli “pubblici” fortemente
caratterizzanti in senso patriottico dello spirito di
sacrificio e dell’amore materno e coniugale: sono
cataloghi di sante o di donne e giovinette da
ricordare e imitare per virtù cristiane; vestali di
una religione della famiglia che sembra ancora
vivissima, specie nel mondo contadino, immobile e
morale, incurante della fatica.
I pochi segnali di mutamento vengono dalle donne
dell’aristocrazia, avanguardia dei comportamenti
sociali femminili.
La produzione di cataloghi di italiane illustri segna
una seconda fase: personaggi femminili reali e fatti
concreti tengono testa all’invadenza dei testi
letterari diffusi soprattutto con il romanzo francese.
Nel 1909 Paola, la secondogenita di Cesare Lombroso,
dà alle stampe Caratteri della femminilità. Nel saggio
indica tre romanzi come specchio dei modelli culturali
e dei comportamenti sociali femminili del nuovo
secolo. E’ il romanzo, anzi, l’autobiografia a
costituire la trama narrativa del modello di identità
femminile. Insieme a quella di Malwida von Maysenberg,
due di italiane: Una donna dell’alessandrina Sibilla
Aleramo e Le memorie di Linda Murri a cura di Luigi di
San Giusto (pseudonimo di Luisa Macina Gervasio).
Dieci anni dopo esce il primo numero de L’almanacco
della donna italiana, edizioni Bemporad, come
pubblicazione separata de L’Almanacco italiano e come
sostegno della rivista La Donna. Nella prefazione si
spiega che lo scopo dell’almanacco è quello di
“aiutare la donna a proiettarsi fuori dalla famiglia”.
Spunti storici di donne che si sono dedicate al
sociale diventando donne di speranza ce li possono
fornire le figure cristalline di Juliette, marchesa di
Barolo, Florence Nightingale, Ada Negri, Matilde Serao.
Nomi tutti legati da una particolare atmosfera: donne
che hanno scelto e che non si discostano dalle loro
scelte neppure di fronte a sacrifici o difficoltà
personali.
Cosa possiamo imparare da loro, noi kiwaniane del
terzo millennio?
Questo: che se crediamo in qualcosa – per quanto
lontana e difficile ci sembri – possiamo insistere,
essere testarde senza diventare fanatiche o gettare la
famiglia alle ortiche. Perché impegnarsi, si può!
Juliette, marchesa di Barolo (Maulèvrier 26 giugno
1786 – Torino 19 gennaio 1864), è una delle figure più
importanti nel quadro delle opere assistenziali in
Piemonte prima e dopo il Risorgimento.
Juliette Colbert de Maulévrier, discendente di quel
Jean-Baptiste Colbert ministro delle finanze di Luigi
XIV sposò Carlo Tancredi Falletti di Barolo Sindaco di
Torino negli anni 1826/7 e consigliere di Stato nel
’29.
La nobildonna, definita “Madre dei poveri”, fedele al
suo motto “Gloria a Dio, bene al prossimo, croce a
noi” è un’antesignana della promozione della donna e
svolge opere di carità nei confronti dei bisognosi non
limitandosi, però, al solo soccorso materiale ma
cercando di consigliare, istruire, rieducare alla
vita.
Non ha il dono dei figli, ma non si ripiega sul suo
dolore: adotta i poveri di Torino e, anticipando le
riforme, Juliette inizia la sua opera nelle carceri
dove s’agita e s’avvolge nel fango della parte più
miserevole e più infelice dell’umanità.
Utilizza la sua condizione privilegiata per
“svegliare” il potere civile e chiedere di modificare
la condizione delle carcerate con un trattamento più
umano e un maggior rispetto dell’igiene.
Migliorare l’esistenza morale, specialmente con
l’istruzione religiosa che impartisce coadiuvata da
altre dame, è uno dei suoi primi obiettivi.
Successivamente chiede e ottiene l’introduzione dei
cappellani, quindi propone il lavoro che considera
essenziale per un reale recupero. Creare un carcere
più vivibile. Ma non è facile. Nei primi tempi le più
ostili sono proprio le carcerate alcolizzate alle
quali impedisce di bere.
Dopo la morte del marito Tancredi, forse anticipata
dall’abnegazione dei coniugi nel soccorrere gli
ammalati di colera durante l’epidemia del ’35, Silvio
Pellico, già introdotto in Casa Barolo dal comune
amico Cesare Balbo, rimarrà sempre fedelmente accanto
alla Marchesa (determinante per il Pellico l’amicizia
con i Marchesi perché, oltre all’impegno di
bibliotecario gli consentiranno di pubblicare tutte le
sue opere).
Tra le numerosissime istituzioni benefiche alle quali
è legato il nome di Juliette ricordo la fondazione di
un primo asilo per ospitare quotidianamente i figli
delle donne lavoratrici ed è ancora lei che fonda la
“Famiglia operaia”, un convitto per le fanciulle a
bottega.
L’ultima volontà di Juliette è per “L’Opera Pia
Barolo, sotto l’invocazione di Santa Giulia, a maggior
gloria di Dio e della santa religione cattolica,
apostolica romana, a pubblico bene e con la piena
osservanza di tutte le singole disposizioni”.
Florence Nightingale (Firenze 15 maggio 1823 – Londra
13 agosto 1910), è nata da una famiglia agiata e il
suo sogno è vivere indipendente, studiare e dedicarsi
all’assistenza degli ammalati.
Arrivata al culmine della notorietà la regina Vittoria
le scriverà: Sarà una grande soddisfazione per me,
conoscere di persona colei che ha dato un così fulgido
esempio al
Raggiunta l’età in cui le fanciulle si preparano al
matrimonio, Florence chiede e ottiene, non senza
sacrificio da parte della famiglia, di potersi
allontanare da casa.
Grazie al suo carattere tenace e volitivo gli anni
dello studio scivolano via sereni. Ne uscirà una
giovane matura, consapevole, libera.
Nel 1854 si combatte la guerra di Crimea. Florence,
già decisa a partire come volontaria, riceve la nomina
di “Sovrintendente del Corpo d’Infermiere degli
Ospedali inglesi in Turchia”. Parte da Londra a capo
di un gruppo di trentotto infermiere e dieci suore. La
sua dedizione, il suo senso di responsabilità, il suo
conforto ai feriti è noto a tutti e non ha alcun
timore del colera!
Il lavoro che Florence Nightingale compie negli
ospedali inglesi è incredibile: riesce a trasformarli
da orridi e sudici luoghi in cui i soldati muoiono di
malattia e di infezioni in veri ospedali, organizzati,
puliti, efficienti.
Si ammala di tifo e la sua vita oscilla fra la vita e
la morte. Rientra in Patria magra, indebolita dalle
fatiche disumane ma la “Dama della lampada”,
l’”angelo” della Crimea torna al lavoro di ogni
giorno, come se nulla fosse.
Vive ancora a lungo, quasi cinquant’anni, una vita
feconda e appassionata. Si occupa della costruzione di
ospedali, scrive libri sul pronto soccorso e
l’assistenza ai malati, ma soprattutto fonda una
grande scuola per infermiere. E i suoi insegnamenti
sono tuttora le basi della moderna scuola convitto
della “Croce Rossa”.
Matilde Serao (Patrasso 7 marzo 1856 – Napoli 25
luglio 1927), in una lettera indirizzata alla
giornalista Olga Ossani Lodi, “Febea”, con un certo
candore, si descrive: Nata da madre greca e padre
napoletano – Salute insolente e impenitenza cronica –
Miopia costituzionale – Grande passione per i
maccheroni, i dolci squisiti e i libri – Odio
infantile e radiato allo scrivere, con relativa
calligrafia orribile – Nessuna cultura classica –
Lettura straordinaria, imbrogliata, scientifica e
romanzesca – Ambiente giornalistico un po’ bohème –
Quattrini pochi. Per il marito Edoardo Scarfoglio è
una donna che nella scatola cranica porta una miniera
d’oro. Opinione comune è che la Serao è un concentrato
di energia vitale allo stato puro!
Che Matilde sia stata donna eccezionale per le regole
dell’ambiente italiano e per il suo sesso se ne
accorge anche un signora “snob” come la scrittrice
americana Edith Wharton pupilla di Henry James quando,
incontratala in un salotto parigino alla vigilia della
Grande Guerra le riconosce la capacità di raggiungere
punte mai rilevate nei discorsi di altre donne,
perché, dice, cultura ed esperienza sono fuse nello
splendore di un forte intelletto.
L’esordio letterario di Matilde avviene sul Piccolo
con un bozzetto intitolato “Una viola” e firmato
Tuffolina (altri pseudonimi saranno Chiquita, Gibus,
Riccardo Joanna, Giuliano Sorel, Sigma).
Il puntiglio di farsi notare, la comunicativa che del
suo carattere è la dote più appariscente, la sua
rumorosa e generosa discorsività, mai pettegola
tuttavia, l’intelligenza dolente e scanzonata della
vita, il culto appassionato dell’amicizia, l’orrore
per le “pose”, il garbo delle sue prime note a poco a
poco le valgono larga notorietà. Matilde annota e
impara sempre fedele al primo imperioso proposito di
scrivere nient’altro che scrivere, proclama
nell’assumere il primo impiego, questo è il mio
mestiere. Questo è il mio destino. Scrivere fino alla
morte. Ed, infatti, il 25 luglio del 1927 sta
scrivendo un Moscone per il giornale “Dietro il
paravento”. L’ultima parola è “amabile”.
Ada Negri (Lodi 3 febbraio 1870 – Milano 11 gennaio
1945) nasce da Giuseppe, manovale e da Vittoria
Cornalba, tessitrice. Di umilissime origini, trascorre
la puerizia e l’adolescenza nella povertà. Studia fra
gli stenti e, conseguito il diploma di maestra,
insegna nelle scuole elementari.
Poetessa e narratrice di viva ispirazione, predilige
tre temi fondamentali: la natura, l’amore, la
maternità. Al suo esordio diviene subito nota per le
liriche di intonazione sociale, ricche di umanità e
vibranti di passione che rivelano un animo nobilmente
proteso verso gli umili e gli infelici. Conseguente ai
primi successi letterari, a 23 anni, arriva ad honorem
la nomina all’insegnamento nella scuola normale. Con
la sua poesia di denuncia conquista la fama di
poetessa del “quarto Stato”, dal titolo del celebre
quadro dell’alessandrino Pelizza da Volpedo.
(protagonista del dipinto è la folla degli umili,
proletari e sottoproletari in camino con andatura
calma e solenne che esprime consapevolezza delle
proprie idee e fiducia nell’avvenire)
Abbandonata la lotta di classe si concentra sulla
condizione femminile e già sposa di un industriale
biellese e madre della piccola Bianca, dà alle stampe
il volume di versi “Maternità”. Lasciato
l’insegnamento collabora come giornalista al “Corriere
della Sera” ed è, tra l’altro inviata a Messina,
distrutta dal terremoto.
Il suo capolavoro è “Stella mattutina”, opera
autobiografica che sviluppa il tema del passaggio
dall’infanzia all’adolescenza.
Giustamente valorizzata nella sua Lodi, è di qualche
settimana fa l’intervista impossibile in occasione
dell’850esimo dalla fondazione della città. Notevole
ricordare la sua designazione all’Accademia d’Italia
nel 1940.
Le figure di intellettuali e di scrittrici, tranne
pochissime eccezioni, datano successivamente a questa
stagione storica e documentano l’affiorare di una
ricchezza creativa e di una curiosità conoscitiva a
lungo soffocate, ma mai spente.
Il cammino è stato ed è graduale, giacché ha
interessato per lungo tempo ristretti strati sociali
privilegiati, si è diversificato per aeree geografiche
e tarda ancora oggi a interessare ampie zone del
nostro pianeta. Ma è un processo avviato, che ha
fortunatamente modificato la mentalità collettiva,
giustificando, se non attuando, la rivendicazione di
pari opportunità intellettuali per i due sessi.
La conquista di questo spazio ha permesso, ad una
parte del mondo femminile di intraprendere una
riflessione sul proprio ruolo, di accostarsi alla
lettura e dunque alla cultura, nei casi migliori di
“imbracciare” coraggiosamente la penna per parlare di
sé.
Queste donne “privilegiate” che imparavano a dire “io”
dopo lunghi secoli di silenzio, cercavano in primo
luogo una realizzazione personale, ma si sono presto
rese conto di lottare in realtà anche a nome di quelle
che, meno fortunate, passavano in quegli anni dalla
dimensione “casalinga” al contesto alienante della
fabbrica.
La donna kiwaniana:
saper leggere il nostro tempo con intelligenza,
perseveranza e coerenza
Abbiamo visto in precedenza che la donna è sempre
stata presente nella storia: sulla scena sociale,
intellettuale, pubblica, conflittuale.
Se oggi ci guardiamo intorno e osserviamo la società
in cui viviamo nel suo divenire, ci rendiamo conto che
i soggetti definiti “enti educativi” (famiglia,
scuola, chiesa, associazioni, mass media, etc.) hanno
tutti una caratterizzazione più o meno esplicitamente
educativa, il che non significa, però, che siano
sempre educativi in atto. Questo, a mio avviso,
implica che noi tutte, quali donne kiwaniane, dobbiamo
occuparci dell’educazione di persone, cittadini,
lavoratori, per dotarli di quelle competenze senza le
quali la nostra civiltà non si regge, anzi può
regredire nel caos.
Ora possiamo chiederci in che modo oggi la donna, e in
particolare la donna kiwaniana, possa concorrere alla
promozione e condivisione dell’educazione intesa come
“bene comune”. Quali vie, dunque, occorre
intraprendere per formare il “bene comune”?
Non è un “tornare indietro”, bensì un cercare di
collocarsi nel presente, di vivere la contemporaneità
dentro una storia che si fa avvenimento quotidiano,
contribuendo con un agire denso di significati.
La prima indicazione appare molto banale: non ci può
essere educazione al “bene comune” se non lo vogliamo
con perseveranza e coerenza. Non basta identificare un
nucleo di valori condivisi e di comportamenti virtuosi
in campo etico, se poi non si riesce a metterli in
pratica, oppure non basta dichiararsi parti di una
comunità, se poi non ne condividiamo gli oneri che ne
possono scaturire.
Regole e principi non possono essere solo enunciati,
ma devono innanzi tutto essere sperimentati e così,
sperimentandoli, provare se stessi; la convivenza,
infatti, è un’esperienza che vive di sentimenti e di
rapporti interpersonali.
Cittadinanza, convivenza, bene comune, se restano sul
piano delle enunciazioni di principio, rischiano di
risultare parole astratte. Per questo, l’educazione a
divenire e ad essere “cittadini del mondo” deve
necessariamente contenere qualcosa di più e di diverso
Ripensare all’educazione significa porsi in un’ottica
di disponibilità verso gli altri con un agire di
significati da rinnovare continuamente.
Occorre, quindi, la presenza di una persona che nel
suo compiersi sa farsi parte attiva, critica e
consapevole in modo da concorrere alla crescita dei
valori tradizionali, che sono un “bene comune”, e non
alla loro “rottamazione”.
Non bisogna dimenticare, poi, che le “buone azioni”
non sono di competenza dello Stato e delle istituzioni
pubbliche né sono acquistali nei supermercati. Sono,
invece, parte di una funzione sociale diffusa che
coinvolge persone e ambiti in cui esse operano,
ciascuna con il proprio ruolo, valori e specificità,
accomunate dalla ricerca di complementarietà e
sinergie sul terreno della socialità, relazionalità,
reciprocità.
La donna kiwaniana, secondo me, nell’attuale società
deve essere una “educatrice civica” il cui fine è
quello di formare persone capaci non solo di
comprendere ma anche di volere il bene, consapevoli di
essere parte di una realtà in continua evoluzione.
La donna kiwaniana non dovrà essere tollerante e
interessata a salvaguardare i propri margini le
libertà, ma dovrà essere in grado di dare un
significato personale alla realtà in cui si trova e
agire in modo conseguente.
Solo sostenendo le persone a farsi una ragione del
loro esistere nel mondo e del senso della vita sociale
e a rendersi capaci di perseguire tali fini con
determinazione, si possono evitare i rischi di un
completo disinteresse verso la società in cui viviamo.
Lo scopo nostro è, quindi, quello di aiutare tutti, ma
soprattutto i giovani, a conoscere gli “altri” come
persone, a stimarli, e a sperimentare in tal modo la
loro responsabilità verso il gruppo cui appartengono.
Ma si può perseguire praticamente tutto ciò?
Ritengo di sì, purché noi adulti ci riappropriamo del
nostro ruolo e dei nostri compiti educativi, perché, a
ben guardare, sono forse gli adulti che hanno smarrito
la loro responsabilità di educatori.
E’ una strada che si può percorrere per creare
consapevolezza educativa in tutti gli “enti
educativi”, compresa la nostra organizzazione, basta
non lasciarsi prendere dallo sconforto per eventuali
insuccessi e dalla pigrizia.
PRECETTI PER LA DONNA KIWANIANA
1. Ricordati sempre che sei donna
2. Sii sempre te stessa
3. Procedi senza indugio a fianco dell’umanità
4. Cammina all’ombra di ciascuno che incontri
5. Non giudicare al primo sguardo
6. Sii disponibile senza pretendere nulla in cambio
7. Non biasimare i giovani che ricercano il piacere
come se fosse l’unico bene
8. Insegna loro a dare valore al tempo
9. Raccomanda loro, se hanno molto, di non pretendere
il tutto
10. Non confondere i bisogni altrui con i tu
Mariavittoria Delpiano |