IL DIARIO

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ETIOPIA

 

Entriamo in territorio etiopico, ci timbrano il passaporto ed il primo controllo doganale, quello materiale della verifica del veicolo, salta completamente in quanto i doganieri stanno giocando a carte e non intendono smettere per noi.

Va bene così anche per noi che possiamo riprendere la via e portarci presso gli uffici doganali veri e propri dove ci verrà rilasciato un documento che sostituisce il Carnet del Passage en Douane che in Etiopia non è valido. E’ valido il loro che ci costerà la bellezza di 1 $ pagabile chissà perché in dollari anziché in Birr, la moneta locale. Chissà come mai i Birr non li vogliono nemmeno loro che li hanno emessi.

Dopo quaranta chilometri di pista arriviamo agli uffici doganali che è quasi buio e campeggiamo nel cortile degli uffici doganali stessi che, ovviamente, sono chiusi e riapriranno l’indomani alle sette, come ci dice il militare di guardia.   

Infatti alle dieci (non alle sette) arrivano i doganieri che, però, gentilissimi, mentre da un piatto comune fanno colazione con la injara ed i macaoni (residuo culturale della dominazione italiana) ci compilano i documenti e così possiamo ripartire per la pista che di chilometro in chilometro si fa sempre più brutta sino a consentire velocità di non più di dieci-dodici chilometri orari.

Arranchiamo su piste sassose e ripide sugli infiniti saliscendi che ci porteranno a raggiungere a duemilatrecento metri la città di Gondar a nord del Lago Tana.

Dopo un ultimo tratto in cui la pista migliora, ci fermiamo campeggiando nel giardino del Terara Hotel, una struttura coloniale in cui la veranda si chiama ancora veranda e le persiane sono persiane di tipo lombardo. E’ il nostro primo impatto con l’Africa non più mussulmana. Non più Muezzin che cantano e non più donne velate. Non più galabea bianche nè schesc, non più shisha  nè festa il venerdì e non più alcolici vietati, ma whisky e ouzo in bella mostra nella vetrinetta del bar. Non più lingua araba e non più as salam el aikum.

Un’aria povera da Africa inizi-novecento e chiese cristiano-copte i cui religiosi, però, hanno imparato dai Muezzin a cantare a squarciagola alle sei del mattino. Manifesti etiopici scoloriti alle pareti del bar e sedie reimpagliate in plastica.

Un’aria povera ma che riconosciamo senz’altro come un’aria contenente un’essenza nota. Un giardino lussureggiante dove la natura, a differenza di quella sudanese, è qui estremamente generosa. Sembra proprio che dopo aver fatto carestia per tante migliaia di chilometri di deserto e di savana abbia voglia ora di esagerare. Se prima poche foglioline parevano già qualcosa in mezzo all’arida sabbia, qui la grandezza e la grassezza delle foglie e la dimensione delle piante fanno pensare a Gulliver in mezzo ai suoi concittadini lillipuziani. 

L’impatto con l’Etiopia però, sin dal villaggio di Metema che è un tutt’uno con quello di Gallabat sul versante sudanese è stato l’impatto con un girone dantesco.

Non una strada a far da divisorio alle capanne di paglia ma un ammasso informe di massi posti alla rinfusa da madre natura. Troppo grossi per poter essere schiacciati dai pochi camion in transito e troppo lontani dalla civiltà perché qualcuno si prenda la briga di spostarli con una ruspa. Una massa di bambini che al nostro passaggio ci grida insistentemente “yu, yu, yu,” in lingua locale una specie di hallo, un saluto, insomma.

Tutti gridano così, maschietti e femminucce facendoci segno di fermarsi. Tutti corrono verso il nostro veicolo al suo passaggio come mosche attirate dal miele. Ovviamente non ci fermiamo; non abbiamo motivo di farlo; se lo facessimo daremmo loro l’illusione di poter guadagnare qualcosa dalla nostra fermata. Sono vestiti di stracci. Lo sono i bambini seminudi come lo sono gli adulti. E’ un posto dimenticato da Dio, lontano mille chilometri senza asfalto da Addis Abeba che a sua volta è lontana anni luce da Roma, Parigi, Londra, New York.

Lungo la pista che esce dal villaggio il paesaggio è subito diverso da quello sudanese ed anche qualche goccia di pioggia serve a segnare la differenza. Sino al confine di Gallabat il territorio era costituito da savana tant’è vero che Gallabat è anche il punto più a nord del Dinder National Parc; da Metema in avanti il territorio si fa’ montano e lentamente ci si addentra portandosi lentamente in quota su una pista che la carta Michelin da per “ameliorée”, termine relativo in quanto bisognerebbe sapere com’era prima del miglioramento e termine che ricomprende tutti gli oltre duecento chilometri che portano da Metema a Gonder ma in realtà dipende da quanto tempo è passato da quando una ruspa ha tentato di spianare un po’ l’ammasso roccioso che scassa le balestre e taglia i pneumatici, svita ogni bullone e crepa ogni saldatura.

Già, perché duecento chilometri di sassi sono tanti. Duecento chilometri sono cento e ancora cento. E cento sono qualcosa come cento volte un chilometro che a sua volta è fatto di tante centinaia di metri da percorrere a passo d’uomo, in salita e in discesa. E questo non per modo di dire ma proprio a passo d’uomo al punto che a volte il tachimetro sentendosi sminuito nelle sue funzioni evita addirittura di spostare la lancetta dallo zero o se lo fa lo fa saltellando e vibrando.       

Stamattina, con Solomo, uno studente di sedici anni che ci ha fatto da guida, (interessata s’intende) ci siamo recati sulle isolette del Lago Tana a visitare i monasteri cristiano-ortodossi. Il lago era un pullulare di pellicani che stazionavano presso i rari pescatori locali sulle piroghe di papiro nella speranza di ricevere qualche pesce in regalo. Dubito però che il pescatore intendesse dividere il proprio pescato con qualcun altro, foss’anche un pellicano. Ma ritornando ai monasteri va detto che uno di questi è anche molto antico, è del 1306 ed attorno ad esso vivono cinquantadue monaci praticamente isolati dal resto del mondo se non fosse per quei pochi viaggiatori che vi si recano in visita.

Costoro si mantengono coltivando caffè e con i proventi delle visite dei rari turisti. Il monastero è costituito da una grande capanna di fango impastato con la paglia, di forma rotonda con il tetto conico. Tutt’intorno una lunga veranda dove stazionano i monaci in preghiera, lo circonda. chiuso da porte di legno alte quattro metri, all’interno vi è un corridoio circolare che racchiude una costruzione più piccola, chiusa anch’essa e che contiene il tabernacolo. I muri di fango, completamente ricoperti di tela  sono dipinti a colori sgargianti e raffigurano in tipico stile greco-ortodosso la vita di Gesù, della Vergine Maria, degli Evangelisti e di molti santi tra cui, tipico, San Michele che uccide il drago e San Giorgio. Inoltre storie di santi, demoni e sacre rappresentazioni.   Sottoterra, all’interno della costruzione nella quale si può accedere solo a piedi nudi, sono sepolti i monaci defunti. Il pavimento di terra battuta è ricoperto di stuoie di papiro intrecciate con liane e tappeti in stile orientale. Fuori, nell’area circostante e nei pressi vi è la campana con cui vengono chiamati i monaci alla preghiera. Questa è costituita da una pietra lunga oltre un metro e retta ai due lati da un sostegno di legno; pietra che colpita con un sasso emette un suono armonioso e simile ad una campana. Naturalmente le cerimonie religiose sono accompagnate da canti al suono dei tradizionali tamburi di pelle di capra.

Diversi ragazzetti fuori da uno dei monasteri ci hanno offerto oggetti tradizionali che per pochi dollari non si poteva non acquistare. Tra questi uno credo che uno sia veramente meritevole di apprezzamento e si tratta di un antico libretto di preghiere in lingua copta e scritto su pagine di pelle di capra. E’ stato stimato per antico di quattrocento anni. Vero o meno che sia, è comunque un oggetto curioso e interessante come lo sono, senza essere antichi, un tradizionale contenitore di injara, la tipica sfoglia di miglio cotta su una grossa pietra piatta posta sul fuoco e rassomigliante sia dall’aspetto sia dal procedimento di preparazione alle crepes, e la borraccia; entrambi oggetti utili per viaggiare.

I pastori etiopi sono famosi per le loro qualità podistiche. Infatti sono in grado di percorrere di corsa tratti lunghissimi e questo li ha portati anche a distinguersi alle olimpiadi spesso vincendo nelle specialità che prevedono lunghi percorsi e resistenza. Ebbene, costoro, nei lunghi spostamenti hanno sempre con sé questi contenitori fatti di pelle di capra atti a contenere da bere e la injara.

Verso sera, facendo quattro passi per Bahir Dar, ho notato che qui, diversamente dall’Egitto le auto sono scarsissime mentre le biciclette sono un numero considerevole e fuori, lungo le strade principali di comunicazione, le auto pure sono rare e la gente si sposta normalmente a piedi. Fatto è che qui non hanno il petrolio; il petrolio costa e la povertà non permette di acquistare ne’ il petrolio ne’ le automobili.

Qui a Bahir Dar ma penso anche in tutta l’Etiopia, paese non a maggioranza mussulmana ho notato che le donne hanno acquisito un alto grado di parità con il maschio, parità alla quale meglio avrebbero fatto a non ambire, infatti, e la cosa mi ha stupito, ho visto moltissimi muratori in gonnella così come spetta loro la cura delle aiuole cittadine. Ragazze ad annaffiare le aiuole spartitraffico fiorite, ragazze sui ponteggi, ragazze a portar secchi di sabbia e ragazze con cazzuola ad intonacare muri di fabbricati in costruzione. Muratori in gonnella, moltissimi e, si badi bene, davvero in gonnella, non per modo di dire.

Purtroppo, in giro per Bahir Dar, ho visto anche moltissimi ciechi, storpi, nani, ammalati, mendicanti coperti di stracci ai bordi delle vie e bambini a chiedere la carità. A volte i mendicanti non sono neppure facilmente riconoscibili come tali essendo apparentemente solo un mucchio di stracci lungo il marciapiede.  

Oggi 15 gennaio è stata una giornata tosta nel senso che per poter percorrere in un solo giorno gli oltre cinquecento chilometri che separano, per la via più breve che passa da Mota, Bahir Dar da Addis Abeba siamo dovuti partire prima che facesse giorno per giungere appena dopo che si è  fatto buio.

Siamo usciti da Bahir Dar che era ancora buio e girato l’angolo, si fa per dire, ci siamo ritrovati sulla strada sterrata che lascia la cittadina verso sud. Il paesaggio era qualcosa di veramente particolare. La gente a piedi era già parecchia e camminava silenziosa come fantasmi. Il tutto era pressoché immerso nel silenzio in quanto, già ho avuto modo di dirlo, l’Etiopia è un Paese che va a piedi. Nel silenzio l’aria polverosa sollevata da qualche camion di passaggio, restava palpabile a mezz’aria per parecchio tempo rendendo il paesaggio satinato. Nessuna luce nelle capanne ma già comunque piene di vita. Le donne, davanti a casa avevano sul fuoco la prima injara, forse quella da dare al marito in partenza per i campi o quella per la colazione dei figli.

Appena fuori la strada si è fatta pessima alternandosi a tratti decisamente migliori. L’asfalto bisognava attenderlo ancora per molto. Per ora bisognava accontentarsi di salire e scendere le erte che uniscono piacevolissime colline verdeggianti per poi passare a quelle molto più impegnative che uniscono montagne di altezza notevole tagliate da lunghissimi canyon che devono essere discesi fino sul fondo per poter poi risalire dalla parte opposta. Un ponte in ferro ad unica travata sul Nilo Azzurro già un tantino ceduto nella struttura e pavimentato con assi ormai sconnesse ha messo a dura prova il nostro coraggio. Se non avessi visto passare appena prima un camion un po’ più grosso del nostro, giuro che non mi ci sarei azzardato. L’ho comunque percorso a passo d’uomo guardando direttamente fuori dal finestrino dove stessi mettendo le ruote. Le assi ormai abbondantemente sconnesse crepitavano sotto i pneumatici mentre in corrispondenza delle giunture dei pezzi della struttura metallica, il ferro cigolava al passaggio.

E poi su, in alto cambiando marcia sino ad usare le ridotte e poi giù sempre con le ridotte inserite per non surriscaldare i freni. Povero camion! Ha fatto il suo dovere fino in fondo compresi i tratti infangati da una recente pioggia. Già, fino in fondo, e non per modo di dire. Appena giunti nel cortile dell’Hotel che offre anche possibilità di campeggio, il Bel Air di Addis Abeba, una volta spento non ha più voluto saperne di ripartire neppure per essere meglio parcheggiato. Qualche problema di batteria o di alternatore. Domani, quindi, oltre che del visto consolare keniota provvederemo anche far sistemare l’impianto elettrico prima di occuparci della nostra … missione. Un elettrauto etiopico mancava nella nostra collezione che già vede presenti meccanico tunisino sia per il camion che per il generatore di corrente, un meccanico per il diesel, un gommista,  ed ancora un riparatore per il generatore di corrente in Sudan. Cos’altro ci attenderà? Non è dato sapersi, per ora.   

Dedichiamo una giornata alla manutenzione del camion. Assolutamente necessaria una batteria nuova (una delle due era nientepopodimeno che scoppiata) Così, anche per non creare scompensi di sorta le abbiamo sostituite entrambe andando a cercarle in centro con il Taxi (Lada tipo fiat 124 – i Taxi di Addis sono tutti, e dico tutti Fiat 124 o Lada e di colore azzurro/tetto bianco).

Alla sera ci siamo presi il lusso di andare a mangiare in uno dei locali più belli che ci possano essere in assoluto, Italia compresa. Un locale nuovissimo il Top Blu con vista su Addis Abeba con servizio impeccabile e pulizia indescrivibile. Una cosa da nababbi e … cucina italiana. Carbonara, prosciutto di Parma, Filetto, ecc. ecc. per un importo in Birr equivalente a18 Euro in due. 

Abbiamo anche fatto visita a Villa Italia, sede dell’Ambasciata italiana posta su una altura e cintata, come tutte le altre ambasciate del resto, all’interno di alte mura sovrastate da filo spinato.

Un enorme ed immenso parco con piante secolari e fiori di tutti i tipi fa da ala al viale che porta ai fabbricati.

Siamo stati ricevuti dal Primo Segretario Cianfarani che ancora una volta si è complimentato con noi per l’attività che stiamo svolgendo e si è intrattenuto parlandoci della situazione politico-economico-sociale dell’Etiopia. Decisamente uno dei Paesi più poveri dell’Africa con un reddito pro-capite annuo di 150 $, qualcosa come quasi la metà del reddito pro-capite annuo dei sudanesi che, al confronto,  fanno quasi la figura dei ricchi. Ma la statistica, si sa, va interpretata e il concetto del mezzo pollo a testa, si sa, non sfama chi quel mezzo pollo non ce l’ha e vede il vicino di casa mangiare un pollo intero.

E qui sta la differenza per la quale si producono le malattie e la morte. Proprio quei 150 $ sono la possibilità, almeno di comperare le medicine e quel minimo di alimentazione che evita la cecità.

La situazione dell’Etiopia sotto l’aspetto della povertà è qualcosa di indescrivibile. Il numero di bambini che si dedica all’accattonaggio è elevatissimo. Accattonaggio puro a cui si affiancano quelle attività che non sono tali ma che sono accattonaggio pur’esse quali il tentativo di vendita di fazzolettini di carta lungo le strade di Addis Abeba o l’infinita fila di lustrascarpe. I malati e gli storpi lungo le vie cittadine non si contano. Persone con le stampelle, moncherini scoperti, deturpazioni al viso, mostruosità di tutti i generi convivono con gente che mangia rifiuti e dorme tra i rifiuti. Ma si badi bene, non sono rarità ma talmente frequenti da potersi quasi considerare la norma. Basti dire che i ragazzi più fortunati che frequentano le scuole superiori, e quindi stiamo parlando di una ristretta fascia di benestanti, ha spesso la divisa scolastica piena di strappi e di buchi. Straccioni, accattoni, malati, storpi. In Etiopia il 90% delle persone è affetto da epatite virale. La più alta percentuale di Hiv è qui presente.

E pensare che l’ambiente fisico, al confronto con l’aridità sahariana e delle savane sudanesi, offre un’alta disponibilità all’agricoltura; almeno per quella parte di territorio non desertico che è comunque parecchio esteso. Purtroppo, però, la produzione agricola vuole mercati di smercio e strade percorribili per il trasporto dei prodotti stessi; e queste cose mancano facendo sì che si renda inutile produrre ciò che non si può trasportare ne’ vendere ad alcuno in quanto privo di denaro per pagarlo. E così tutto si ferma.

La stessa cosa vale per il bestiame che vive nei pascoli e da’ ottima qualità di carne che però non può essere acquistata da chi non ha lavoro e denaro.

La vita media è qui di quarantaquattro anni ed una persona che lavora in famiglia mantiene mogli, (metà della popolazione è mussulmana) figli, genitori, fratelli, sorelle, cugini per un totale di venti o trenta persone. Non esiste protezione sociale di alcun tipo e quando un operaio per qualsiasi motivo perde il lavoro è l’accattonaggio per tutte le venti o trenta persone. Così sulla strada finiscono il nonno cieco ed il nipotino, la moglie a tentare di vendere inutili cose e la figlia … ciò che può.

Ogni tanto qualche guerra offre un po’ di lavoro e, per quanto possa sembrare assurdo, un tetto, un pasto, una paga e dei vestiti. Ora che la guerra con l’Eritrea è terminata da un anno, parecchi militari sono stati lasciati a casa e questo significa un po’ di fame in più e la possibilità che costoro vadano ad ingrossare, fruendo delle stesse divise ed armi governative, le fila del banditismo.

E’ solo di una settimana fa l’assalto, nei pressi di Jima, di un’auto dell’ambasciata italiana con il conseguente depredamento dei suoi viaggiatori. Nessun morto, nessun ferito e nemmeno furto d’auto che è difficilmente smerciabile in quanto le grosse e nuove Toyota non possono passare inosservate in mezzo alle Lada e Fiat 124 locali. Solo il saccheggio di denaro, orologi, vestiti e tutto quanto ha un valore.

La democrazia, diversamente dal regime precedente, è ora una realtà anche se solo virtuale, per ora. E’ sbandierata in televisione e sui giornali. E’ una democrazia … parlata.