IL DIARIO

 PARTENZA TUNISIA LIBIA EGITTO SUDAN ETIOPIA
KENYA TANZANIA ZAMBIA BOTSWANA SWAZILAND SUDAFRICA

 

KENYA    

   

Dopo una quantità incredibile di chilometri tra villaggi dove non manchiamo mai di suscitare curiosità tra adulti e bambini mentre i primi al nostro sopraggiungere corrono verso la strada ad offrirci manghi e papaie nella speranza di un piccolo guadagno ed i secondi a cantilenare il solito ripetuto yu yu yu siamo giunti a Moyale su strada molto bella dove sia in uscita dall’Etiopia che in entrata in Kenya le operazioni doganali sono state molto rapide; specialmente quelle keniote che in questo modo offrono l’impressione di essere ormai lontani anni luce dalle dogane dei paesi arabi. Non più registrazione di telecamere e computer ne’ visita di controllo doganale vero e proprio ancora piuttosto accurata, invece, in uscita dall’Etiopia.

Oggi 20 gennaio siamo giunti a Marsabit sede del parco omonimo.

Partiti al mattino presto da Moyale abbiamo viaggiato senza scorta. Il percorso in genere va effettuato con scorta armata ma siccome il nostro è un camion e, quindi, un mezzo lento per sua natura ci si è accordati con il comando di polizia per partire al mattino presto due ore prima della carovana tanto la carovana ci avrebbe raggiunto più tardi. In realtà, siccome non siamo poi così lenti rispetto alle Land Rover, la carovana non ci ha mai raggiunto.

Giunti nei pressi di Sololo, uno sparuto villaggetto, essendo ancora presto e non essendoci nessuno in vista ad un check-point, siamo passati oltre e poche centinaia di metri dopo i militari ci hanno fermato e stavamo per passare seri guai. Si parlava di arresto.

Qualche chilometro più avanti una foratura ci ha nuovamente bloccato e, una volta fermi, riamo stati raggiunti e pregati di dare un passaggio ad un tizio che si è dichiarato come ex-poliziotto etiopico e sedicente rifugiato politico.

Forse abbiamo rischiato qualcosa in quanto ai successivi check-point mentre io solo scendevo per i controlli di rito, il tizio se la faceva sotto dalla paura e si riparava dalla vista dei militari kenioti dedicandosi alla lettura delle carte geografiche.

Giunti a Marsabit abbiamo provveduto a far riparare la gomma forata rendendoci conto con l’occasione che anche in Kenya come in Etiopia ed in ogni altra parte del mondo anche per fare i lavori manuali è necessario usare il cervello. Infatti, batti e ribatti mi hanno quasi disfatto un cerchione.

Abbiamo passato la notte in un bosco all’esterno del Parco di Marsabit in quanto non ci hanno consigliato di entrare con il camion nel parco stesso perché troppo alto rispetto alla vegetazione rischiando di restarvi intrappolati. La mattina successiva, neanche a farlo apposta, abbiamo, a causa dell’altezza, strappato e portato appresso fino al distributore di carburante almeno una ventina di metri di filo telefonico. Quel giorno e chissà per quanti altri successivi a Marsabit  qualcuno è rimasto senza linea telefonica. Infatti al distributore di carburante qualcuno mi ha fatto notare che mi stavo portando appresso  un lungo codazzo di filo telefonico ma oltre a staccarlo nessuno ha detto nulla. Anche questa è Africa.

Dopo un  percorso molto duro e costituito in parte da sabbia ma la più parte da pista dura e sassosa e poi dalle rocce spaccatutto del Mare di Giada siamo giunti a Loiyangalani sul Lago Turkana. Duecentottanta  chilometri d’inferno e così è scoppiata un’altra gomma e sempre posteriore. Comunque, a parte ciò e le  undici ore di guida, tutto O.k..

A Loiyangalani convivono anche se in villaggi separati ben quattro diverse tribù: i Turkana, gli El Molo, i Samburu ed i Melille. Qui le donne Turkana vanno in giro effettivamente a seno scoperto e sono proprio nere nere così come i bambini portano al collo le collanine coloratissime come da tradizione. Dicevo, convivono, ma questo è un modo di dire in quanto a parte gli El Molo che sono dediti alla pesca sul lago, le altre tribù sono molto combattive e tradizionalmente nemiche ed i rapporti non sempre idilliaci. Vivono intorno al lago Turkana in villaggi separati e distanti tra di loro e conservano usi e tradizioni diverse anche se, in alcuni casi, simili.

 

Oggi siamo rimasti tutto il giorno in Loiyangalani a visitare la missione cattolica della Consolata dove abbiamo conosciuto padre Joya e padre Ferney e le suore tra cui una di Bergamo alta che ci ha raccomandato di salutare, al nostro ritorno, la sua terra.

Abbiamo cenato con loro e la notte siamo rimasti all’interno della missione. Abbiamo parlato del nostro progetto ed abbiamo lasciato il mio computer portatile in regalo a Padre Joya che ne ha bisogno. Siamo stati trattati benissimo ed abbiamo fatto il pieno d’acqua.

Qui a Loiyangalani era da poco passata una missione di antropologi dell’Università di Pavia guidata dal Professor Roberto Salsa che sta effettuando studi proprio su queste quattro tribù ed è intenzionata ad aprire un museo nel vicino Parco naturale del Sibiloi.

Vicino; vicino si fa per dire in quanto è ad oltre cento chilometri da Loyangalani sempre sulle coste del Lago Turkana ma più a nord. Ma cento chilometri di pista dura quale quella che porta al Sibiloi non sono poca cosa ed equivalgono ad un viaggio vero e proprio.

Oggi, 23 gennaio siamo ripartiti da Loiyangalani, ristorati e contenti sulla ancor brutta pista che da Loiyangalani scende verso Maralal, a circa settanta chilometri da Loiyangalani ed a pochi chilometri da South Horr siamo rimasti di nuovo a piedi. La riparazione tunisina dell’albero di trasmissione principale, fatta malissimo e poi la parziale sostituzione dei bulloni fatta a Khartoum sta dando ancora i suoi pessimi frutti. Purtroppo il bullone tranciato a Khartoum non è stato sostituito in quanto l’operazione era troppo difficoltosa e quel bullone tranciato è stato la causa della rottura di un altro bullone con conseguente distacco dell’albero di trasmissione e delle crocere sostituite  in Tunisia e perdita dei rullini in esse contenuti.

Christian ed io ci siamo guardati sconsolati. Ora eravamo davvero nei guai. Fermi nel bel mezzo della pista, pista sulla quale non transita quasi nessuno se non molto molto raramente e sicuramente impossibilitati ad essere trainati in quanto è impossibile con un cavo di traino tirarsi appresso un camion lungo salite e discese e poi da chi?

Pochi minuti dopo, mentre valutavamo i danni che, tra l’altro, parevano anche più consistenti in quanto l’albero di trasmissione girando libero e staccato aveva anche tranciato diversi tubi dell’aria e, chi se ne intende sa che i camion senza l’aria non frenano, pochi minuti dopo, dicevo, si avvicinano due guerrieri Samburu, ovvero due giovanotti con tanto di tunica rossa, lancia e capelli impastati di Henné oltre a tutti gli altri fronzoli tradizionali. 

E’ in questa occasione che abbiamo scoperto non essere così pericolosi come l’aspetto dichiarava. In qualche modo siamo riusciti a comunicare e questi ad accompagnarci a poche centinaia di metri dove al riparo della boscaglia, presso una missione protestante. Da buon pastore e da ancor migliore meccanico ci ha dato una mano a venir fuori dai guai. Ci ha anche offerto una doccia ed una tazza di caffè americano; americano come lui, sua moglie ed i suoi due figli.

Chissà, penso, forse ce la facciamo ad uscire anche da questo guaio, anzi, ne sono certo ed è già un miglioramento il fatto di aver ritrovato lungo la pista le parti staccate delle crocere sebbene senza alcuni dei rullini, perduti nella polvere. Mi preoccupa soltanto il fatto che non riceviamo più messaggi da casa da diversi giorni e da diversi giorni i messaggi nostri non possono partire anche se apparentemente non c’è motivo e l’impianto di trasmissione è integro. A casa saranno quantomeno preoccupatissimi.

Un altro giorno è sorto e per noi proseguono le operazioni per il ripristino delle crocere a cui, dicevamo, mancano parte dei rullini interni e, conseguentemente, se montate senza tutti i rullini possono anche non riuscire a raggiungere Nairobi, il che sarebbe un vero guaio. La fortuna ancora una volta ci ha aiutato facendoci fermare presso persone civili sebbene in luoghi lontanissimi dalla civiltà ma non ci pare il caso di sfidare la sorte insistendo nel viaggiare con una riparazione precaria.

Speriamo che a South Horr, dove non c’è assolutamente niente se non poche capanne di paglia ma esiste una missione cattolica, il missionario presente possa avere quei rullini che ci servono. Chissà, siamo nelle mani della provvidenza ed in essa speriamo. Christian è andato a South Horr mentre io sto rimontando l’albero di trasmissione anteriore che avevamo smontato per vedere se da quello potevamo smontare le crocere o almeno i rullini che ci servivano. Purtroppo le crocere sono diverse ed i rullini pure, per qualche micron, anche.

Sono sporco come un ladro, i babbuini saltano tra i rami degli alberi, i bambini Samburu stanno a guardare ed io aspetto che arrivino buone nuove e si possa presto proseguire.
Di buone nuove non ne sono arrivate e, quindi, abbiamo deciso che senza nuove ed integre crocere l’albero di trasmissione non avrebbe retto, in condizioni così precarie, il percorso sulla pista che ancora ci attendeva e ci separava dall’asfalto.

Prendiamo quindi la decisione di acquistare le nuove crocere che se siamo fortunati si potranno trovare soltanto a Nairobi.

Abbiamo atteso sulla pista per sei ore il passaggio di una Toyota Land Cruiser che il tam-tam della jungla aveva dato per imminente.

Alle quattro del pomeriggio si è sentito il rumore del motore ed è arrivata. Era carica di turisti europei con le guide locali. Evidentemente, come supposto e prevedibile, il posto per due persone non c’era. Per uno solo e fino a Baragoi, cinquanta chilometri più a sud, il passaggio, stringendosi, era possibile. Così è andato Christian mentre io mi sono fermato qui sul camion con tutta la preoccupazione di un padre che ha un figlio di ventidue anni in giro per le sperdute e desolate savane del Kenya.

Mi dicono che più avanti, da Baragoi a Maralal e poi da Maralal sino a Nairobi ci sono i Matutu cioè i camion-pullman locali. Comunque, a conti fatti, considerando che di mezzo c’è un sabato ed una domenica, non posso attenderne il ritorno prima di sei giorni e so già che saranno sei giorni penosissimi.

Ho scoperto che questo posto ha anche un nome. Sono fermo a Kurungu, mille abitanti sparsi nelle boscaglie a otto chilometri da South Horr e cinquecentoquaranta da Nairobi in una savana tra due creste di monti.

Niente luce elettrica, niente telefono, niente distributori di carburante solo pastori e guerrieri Samburu, babbuini, asini, cammelli e capre.

Sono le diciassette ed è passata ora la prima auto dopo quella che ieri ha raccolto Christian ed oltretutto diretta in senso opposto. Ciononostante, cioè nonostante il non proprio intenso traffico, ho saputo che ieri una Land Rover a pochi chilometri da qui ha rotto i freni e si è schiantata tra le rocce. Tre morti.

Di giorno qui intorno all’equatore la temperatura va dai trenta ai quaranta gradi, l’aria è torrida ma di notte si rinfresca abbastanza. Tutt’intorno gli unici rumori che si sentono sono di uccelli che fanno versi a noi ignoti, l’abbaiare dei babbuini cattivi e dispettosi mentre saltano sugli alberi e le voci delle donne e dei bambini nei villaggi di capanne tutt’intorno. Villaggi che mi dicono esserci ma che da qui non si vedono. Si intuiscono solo dal transitare di donne che entrano ed escono dalla boscaglia con le loro capre o di bambini che si fermano curiosi a guardare la mia postazione o anche da ragazzi e vecchi in transito. Un saluto e via, visto che parlano Samburu e non ci si può capire. Dopo un attimo se ne vanno salutando “Soba” oppure “Jambo jambo”.

Più avanti, a otto chilometri c’è South Horr, tremila anime Samburu ed una missione cattolica guidata da Padre Pederzini dove c’è anche una piccola nursery tenuta dalle sorelle della Consolata.

 

La notte scorsa sono stato svegliato di soprassalto dai brutti ululati di una iena maculata, così mi hanno detto al mattino, iena che una volta aggirato lentamente il campo se ne è andata e non si è fatta più sentire.

Stressato dalla giornata pesante mi ero addormentato con la porta spalancata ma questo, almeno per quanto riguarda le iene non è un problema, mangiano le carogne.

Qui vicino, a South Horr, ho saputo anche che viveva un afgano appartenente all’organizzazione di El Quaida e che proprio qui costruiva e provava le bombe per gli attentati. E infatti, da qui, da South Horr venne organizzato quello all’ambasciata americana che nel ’97 se non vado errato fece oltre duecentocinquanta morti. Ora il tizio è in galera a Nairobi, la sua capanna è abbandonata ed il luogo soggetto a frequenti controlli di polizia.

Oggi sono andato a visitare la nursery di South Horr annessa alla missione cattolica. Anche qui è retta da una “sorella della Consolata” con l’aiuto di due giovani infermieri locali, un maschio e una femmina. Entrambi hanno finito da poco la scuola ma anche se giovani sono molto bravi. Qui aiutano le donne a partorire; almeno quelle che presentano prevedibili problemi. Producono un lavoro preventivo e di preparazione al parto dando informazioni preventive di tipo igienico-sanitario ed ambulatoriali. Inoltre si occupano di curare piccole ferite, fratture, diagnosticare malattie e, quando la cosa richiede un più importante intervento medico, trasportano il paziente in Land Rover a Maralal, se trasportabile, o richiedono l’intervento aereo di Amref.

I due infermieri sono dei civili e sono quindi pagati. Il dispensario medico si regge facendosi pagare le prestazioni e con le donazioni dei benefattori. Ovviamente le prestazioni sono pagate a prezzo politico e qualche volta è il missionario a prestare il denaro per pagare le prestazioni. Tutto ciò è culturalmente corretto in quanto il servizio non può reggersi in eterno sul volontariato religioso ma un giorno dovrà essere in grado di reggersi con i propri mezzi.

E qui colgo l’occasione per esecrare alcuni comportamenti che sebbene mossi da un senso di pietà ed un desiderio di altruismo offrono benefici morali solo ai donatori creando danni irreparabili, invece, in chi questi benefici riceve. E mi riferisco ad organizzazioni improvvisate e culturalmente impreparate che nella smania di far bene fanno ciò che di peggio si possa fare.

Passano e distribuiscono cibi e abiti. A chi? Senz’altro ai più fortunati che si trovano al posto giusto al momento giusto ma quel che è peggio, agli approfittatori, ai più insistenti, ai maggiormente privi di dignità, a coloro che, furbescamente, sanno approfittare della pietà altrui e non ai più bisognosi, magari rendendo vano in questo modo il lavoro di anni dei missionari. Perché anche qui, come da noi, tra i ricchi esiste il più ricco, qui, tra i poveri esiste il più povero e non lo si riconosce passando sulla pista e lasciandosi impietosire dall’aspetto o dal comportamento.

Bisogna semplicemente essere sul posto, viverci e conoscere le situazioni. Solo in questo modo si può evitare sperequazioni e disuguaglianze, evitare di alimentare attese del gratuito che se poi disattese creano disillusione e, se rispettate, creano un’errata cultura fatalistica e attendista.

Allo stesso modo si comportano quei turisti che passano e lanciano quantità di caramelle ai bambini lungo le piste. Ciò crea attesa e quando l’auto successiva non getterà caramelle si prenderà delle sassate e scorretto è anche strapagare gli oggetti solo perché per noi occidentali ogni prezzo è comunque un prezzo basso ed in ogni caso ci è più comodo e veloce non star lì a contrattare.

Qui, tra i Samburu, i Turkana, i Rendille ma anche tra i Masai ed i Galla come in altre tribù l’era preistorica caratterizzata dall’uomo cacciatore-raccoglitore e sostituito da quella caratterizzata dall’allevatore-coltivatore non è mai stata superata totalmente ed è ancora attualissima.

Qui ancora non c’è divisione del lavoro se non in rarissimi casi così come ci si cura ancora con intrugli preparati con le piante da qualche vecchio sciamano e si vive nelle identiche capanne di paglia a forma di semisfera dove si viveva cinque o seimila anni addietro. Si vive esclusivamente di allevamento e l’economia è prettamente di sopravvivenza e di scambio.  

Gli spostamenti al seguito del bestiame sono limitatissimi; da un villaggio a quello vicino. A piedi, esclusivamente a piedi. Non c’è luce elettrica. Qui non arriva alcuna linea ne’ elettrica ne’ telefonica. Solo le missioni hanno la luce che producono, per l’utilizzo di poche ore al giorno, con impianti eolici o pannelli solari o con generatori di corrente e comunicano con le altre missioni via radio. Nelle capanne, invece, la sera scende alla stessa ora tutti i giorni che Dio concede e la luce è quella del falò attorno al quale i giovani guerrieri cantano e ballano. Poi si spegne anche il falò, resta la luna ed il giorno presente diventa ieri lasciando il posto a quello nuovo che è praticamente identico a quello vecchio. E così da migliaia e migliaia di anni.

Le uniche cose che cambiano in modo consistente sono la densità di popolazione che sta vertiginosamente crescendo ed il rapporto con il resto del mondo che non è affatto statico.

Così, in poco tempo, il terzo mondo è diventato il quarto ed il processo pare inarrestabile. Questa staticità, e lo dico ad evitare che gli antropologi rabbrividiscano non è assoluta, certo, le culture delle oltre quaranta diverse tribù si sono mischiate. Non si sta parlando di astoricità assoluta ma qui non si sta facendo scienza e ciò che ci appare è una società statica e tradizionalista che ha una velocità di cambiamento, mi si consenta, ben diversa da quella occidentale dove si verificano più cambiamenti in un anno che qui in mille. E questo nessuno lo può negare, nemmeno gli antropologi.

Come nella “Fattoria degli animali” di Horwell qui il vecchio padrone e qualche missionario anziano che è qui dalla metà degli anni trenta se lo ricorda bene, ha lasciato il posto al liberatore. Gli anni sessanta hanno portato ovunque la giusta fine del colonialismo. E questo allora sembrava bastare. Ormai sono passati più di quarant’anni, il nuovo padrone si è ovunque installato nella casa di quello vecchio e da tanto ha imparato a camminare … a due zampe; in piedi. Dal vecchio padrone ha imparato tutti i vizi e soltanto poche virtù.

Nel frattempo le strade non manutenute si sono disfatte e gli ospedali distrutti dall’incuria. Se qualcosa era stato costruito a beneficio di pochi ora c’è il nulla a beneficio di tutti. Tutti escluso il ristretto clan della classe dirigente che in Kenya vede in Jomo Kenyatta e nel suo clan i possessori di buona parte dei terreni coltivabili e, quindi, buona parte delle coltivazioni di thé e caffè.

Dal settantotto in Kenya c’è Daniel Arap Moi, altra tribù rispetto a Kenyatta ma “La fattoria degli animali” docet ancora una volta. Il capo e la sua corte, mentre le immani ricchezze dell’Africa, quelle del suolo e quelle del sottosuolo, trasformandosi in dollari passano dall’Africa ai conti correnti cifrati ed ai caveau delle banche di Lugano.  

Oggi il Reverendo Beverly Dale mi ha invitato alla sua chiesa a vedere la funzione della domenica.

E’ stato bello con canti tradizionali molto allegri e ritmati.

Credo che dopo i racconti di oggi del Reverendo Dale, stasera chiuderò la porta del mio camion prima di addormentarmi e di risvegliarmi al lugubre ululato dello sciacallo. In primo luogo perché l’ululato dello sciacallo è veramente lugubre e la credenza popolare ritiene che sia in grado anche di ipnotizzare gli uomini, poi perché non è vero affatto che si ciba solo di carogne anche se è vero che non attacca l’uomo e poi, da ultimo, ma non ultimo in termini di importanza per il fatto che nella zona si aggirano un po’ di leoni che provengono dalle adiacenti savane ed una famiglia di ghepardi. Salvo girare nella boscaglia al buio senza torcia, pare, così dicono in loco, che non ci sia pericolo ma un po’ di prudenza in più non guasta.

Ormai cominciavo ad abituarmi a questa gente, i Samburu, che al di là delle acconciature e colorazioni bellicose mi sembra molto tranquilla ed amichevole, dedita alla pastorizia e per niente pericolosa. Cominciavo a pensare che le lance che normalmente portano con sé i giovani guerrieri e quei corti spadini non fossero altro ormai che residui della tradizione ma pare proprio che non sia affatto così e che la bellicosità si esprima ancora oggi in razzie di bestiame in cui spesso ci scappa il morto.

Tribù Samburu e Turkana che abitano, questi ultimi, al di là delle colline e che di tanto in tanto scendono in questa valle a tentare di predare un po’ di bestiame ai Samburu. E questi ultimi, dal canto loro, non sono da meno. E, tanto per non restare alla preistoria, qualcuno possiede anche armi da fuoco e le usa.

E’ del novantasette la vicenda di un turista tedesco che ha perso la vita trovandosi al posto sbagliato durante una rapina di bestiame ed è del novantotto che un inglese colpito ad un ginocchio da una pallottola vagante ha poi perduto una gamba.

Tutto questo, qui,  esattamente dove mi trovo io, a Kurungu, tra questa gente così mite (io per fortuna non posseggo bestiame).

Discorso diverso da farsi, invece, per la pista che da qui scende a Baragoi e poi a Maralal e da qui a Nakuru e Nairobi. Oltre Baragoi un brutto percorso lento e roccioso, fatto di salite e discese di oltre duecento chilometri e fino alla riserva di Maralal, vi sono solo due villaggetti, pochissime persone e pochissimi animali. Sono stato avvisato che se su questi duecento chilometri capitasse di incontrare gente lungo la pista è meglio fermarsi a distanza e verificare se possiedono bestiame, se sono in gruppo e se portano armi. Nel caso in cui fossero in diversi, con armi e senza bestiame, meglio non procedere, attendere o ritornare indietro; sono senz’altro banditi e lo stesso sulla pista che proprio per questo viene percorsa con la scorta tra Marsabit e Isolo. Ed è perciò che tutti i camionisti in Kenya viaggiano armati. A causa di banditismo, di lotte tribali, di valicamento di confini, di animali; anche se senz’altro questi ultimi sono il pericolo minore.  

E’ il 28 gennaio ed io sono ancora e sempre in attesa di Christian che dovrebbe acquistare oggi, ammesso che ci sia, il pezzo di ricambio e mettersi sulla strada di ritorno per Kurungu.

Stamattina assieme al pastore protestante Reverendo Dale siamo andati a portare alla nursery di South Horr un bambino in preda ad un attacco febbrile di malaria.

Oggi pomeriggio il Reverendo Dale mi ha promesso che nel pomeriggio andremo a vedere un matrimonio Samburu.

E’ il 30 gennaio ed è passato l’unico mezzo, un camion Mercedes Unimog di turisti diretti a Loyangalani ma non si è fermato.

La delusione è stata atroce e la preoccupazione crescente. Anche il Reverendo Dale comincia ad essere seriamente preoccupato; non sa più trovare ragioni per giustificare il ritardo di Christian ed ha deciso che domani, giovedì, partiremo per Baragoi per vedere se riusciamo a trovarlo.

Stamattina, 31 gennaio, alla missione cattolica di Sout Horr, sentita per radio la missione di Baragoi, hanno detto che a Baragoi non l’hanno visto e, quindi, la cosa di sta facendo molto preoccupante. Sister Linda la suora americana non ha più parole di consolazione per me e stringendomi un braccio mi ha detto: “non ci resta che pregare”. Gia!

Siamo partiti per Baragoi mentre senza darlo a vedere ero veramente in preda alla disperazione in quanto se in Baragoi non si è visto allora, dal momento che a Baragoi arrivano regolarmente i Matatu, non dovrebbe neppure essere partito da Nairobi; pertanto dovrebbe essere successo qualcosa di imprevisto e magari spiacevole.

Durante il percorso in Land Rover tra South Horr e Baragoi, a circa ventuno chilometri da South Horr e 19 da Baragoi il Reverento Dale, vedendo una sagoma sulla strada, intima a suo figlio alla guida del veicolo di fermarsi ed estrae il binocolo per verificare se, come temeva, si trattasse di un malvivente armato e presente sul posto per rapinare i viaggiatori come spesso avviene. Il veicolo si ferma, il Reverendo Dale guarda, si volta verso di me che sto sul sedile posteriore e mi dice: “ But, is your son” Resto sconcertato ma improvvisamente felice. “My son?” Non so dire altro! Era proprio Christian sulla pista polverosa che, partito alle sette di mattina si era fatto ormai 19 chilometri a piedi con l’intenzione di raggiungere Sout Horr e poi Kurungu (41 + 8 chilometri) prima di sera.

Cos’era successo? Era successo che era fermo da tre giorni a Maralal nell’attesa che partisse un camion per Loyangalani e che per un motivo o per l’altro non partiva mai sino al punto di farlo decidere di partire a piedi per raggiungermi.

Un rapido e timido abbraccio e via; tutto è bene ciò che finisce bene.

Subito, ovvero nel pomeriggio stesso, abbiamo iniziato a rimontare l’albero di trasmissione al fine di poter ripartire quant Alle 2 del pomeriggio abbiamo terminato di montare l’albero di trasmissione non senza una buona dose di fatica e di imprevisti relativamente ai bulloni che non erano proprio quelli giusti. Alle tre ci siamo accomiatati dal Reverendo Beverly Dale e dalla sua famiglia.

E’ stato quasi commovente. Ha voluto pregare per noi e per il nostro viaggio e regalare a Christian una Bibbia. Abbiamo raggiunto South Horr per salutare sister Linda che non abbiamo trovato in quanto partita urgentemente con una Land Rover per portare una donna, un caso grave, a Nairobi. Abbiamo proseguito per Baragoi ma essendoci stata, dal Reverendo Dale, sconsigliata la sosta, o almeno molta prudenza in quanto pieno di banditi pronti a rapinarci non appena fuori dal villaggio, abbiamo pensato essere meglio proseguire e percorrere anche il pessimo tratto che raggiunge Maralal. Siamo giunti alle otto di sera a buio inoltrato. Non ci è rimasto altro che andare a dormire dopo il pessimo percorso spaccatutto e la tensione dovuta al rischio di essere fermati e rapinati per strada specialmente lungo le salite che impegnavano il povero camion costretti ad usare le marce ridotte ed a viaggiare a sette, otto o dieci chilometri all’ora. Ed erano quelli i tratti di percorso che più impensierivano in quanto sin troppo facile per dei malintenzionati fermarci e rapinarci. A quella velocità, in salita, non avremmo avuto alternativa alcuna, solo quella di farci rapinare e sperare solo di uscirne vivi. Centinaia di chilometri senza un’anima viva.  

Oggi viaggiando molto velocemente da Maralal abbiamo raggiunto direttamente Nairobi ed il Campingsite Mrs. Roche, posto tranquillo e sicuro dove rilassarci per qualche giorno dopo le non poche traversie passate. E’ il 2 febbraio.

Stamattina, 4 febbraio, abbiamo raggiunto la sede Amref presso il Wilson Airport e con Tommy Simmons direttore di Amref Italia che ci ha accolti e che ci attendeva abbiamo concordato le visite ai pozzi d’acqua già costruiti ed i villaggi nel distretto di Katonzweni in cui verranno costruiti i nostri una volta finanziati.

Si è stabilito di partire nel pomeriggio e ad accompagnarci ci sarà la dottoressa Barbara Galateri milanese in trasferta di lavoro presso l’Amref di Nairobi e Mr. Antony Mondoh responsabile della costruzione dei pozzi nel distretto di Kibwezi il quale ha anche fatto un curioso studio sull’impatto che l’arrivo di un pozzo d’acqua ha sulla comunità che ne fruisce, impatto che ha rilevanza non solo sulla riduzione delle fatiche che donne e bambini devono sopportare e neppure solo relativamente alla più ampia possibilità di abbeverare bestiame e, quindi, poterne mantenere una maggior quantità con incidenze positive in termini alimentari ma anche altre incidenze che Mr. Mondo ha rilevato esistere e che vi voglio tradurre e trascrivere integralmente in quanto particolarmente curiose e interessanti.

Oggi abbiamo raggiunto Kibwezi ad est di Nairobi dove Amref è presente anche con un ospedale ed

un centro presso il quale gestisce i training per le famiglie di ragazzi con handicap.

Abbiamo visitato in una zona sperduta e tra le più siccitose del Paese i villaggi del comprensorio di Makueni e Katonzweni dove verranno costruiti i pozzi finanziati con la missione “Sabbia per Acqua” del Kiwanis International.

Alla una presso il villaggio di … la comunità, di razza Kanga ci ha voluto dimostrare il proprio affetto e riconoscenza inscenando balli e canti in nostro onore e rendendo onore a me regalandomi il “bastone del comando” con la motivazione seguente “Tu sei il capo e ti spetta il comando e quindi questo bastone. Comanda e cammina sulla tua strada. Otterrai quello che vuoi ottenere” A mio figlio invece sono stati regalati un arco e due frecce con la motivazione seguente: “Tu sei suo figlio, quindi ti regaliamo arco e frecce perché tu possa combattere e continuare l’opera di tuo padre anche meglio di lui”. E tutto questo mi è poi stato riferito è per loro una grande onorificenza che spetta solo ai capi di villaggio. L’ho molto apprezzata e resterà nel mio cuore per sempre.

Tornerò, ne sono certo, tornerò a visitare questo villaggio un giorno, quando il pozzo sarà stato costruito.  

Prima di sera abbiamo fatto ritorno alla capitale percorrendo la lunga pista in terra battuta e l’altrettanto lungo tratto di asfalto che ci separava da Nairobi mentre ai lati della strada le giraffe si nutrivano tranquillamente.  

Recuperiamo le nostre gomme che ci vengono recapitate al Campingsite Mrs. Roche dal pick-up di Amref e scopriamo subito che una delle tre, quella nuova costata un capitale, non è montata correttamente e “perde”. Bisogna quindi provvedere e prima di ripartire occuparsi anche di far provviste presso un vero supermarket che a Nairobi esiste. Domani, a Dio piacendo, si potrà ripartire.

Percorriamo il lungo tratto che da Nairobi ci porta fino alla frontiera occidentale con la Tanzania e lasciamo il Kenya.